Ovvero le voci dei bambini di oggi e di ieri per raccontare il passato e il presente della nostra lingua
[di Oriana Marzani]
Copia del testo di una lettera sul quaderno di una bambina delle elementari di Montefalcione (Avellino, 1918).
Una mattina, una di quelle mattine in cui ci si sveglia pieni di tempo libero, di energia e di voglia di fare, ho indossato un paio di guanti in lattice (gesto insolito, in tempi pre-Covid!) e ho fatto il mio trionfale ingresso in garage con l’intenzione di “fare pulizia”. Per un animo tendente al vagheggiare come il mio, “fare pulizia” significa generalmente: uno, aprire con solerzia uno scatolone; due, rimanere incantata dal suo contenuto per ore; tre, chiudere lo scatolone e dire «Va beh, c’è sempre tempo per fare pulizia».
Lo scatolone incriminato, quella mattina, era quello dei miei quaderni di scuola. Erano tutti conservati con molta cura, perché li ho amati sin dal primissimo giorno di scuola, giorno in cui il mio Holly Hobbie con la copertina ruvidina color crema mi ha aperto un mondo di bellezza e possibilità. Forse non ci si pensa abbastanza, ma i quaderni entrano a far parte della nostra vita negli anni fragilissimi in cui siamo la più pura essenza di noi stessi, e ci accingiamo a dimenticarla. Riaprendo le loro pagine, quel giorno, ho avuto le più lucide visioni di me stessa. Lì ho trovato scolpite le origini della donna che sono ora; sono quasi riuscita a ricostruire a ritroso la storia della mia personalità. Una sorta di filologia dell’anima.
I quaderni oggi fanno parte dei miei ferri del mestiere. In quanto insegnante sono quotidianamente a contatto con le fatiche, le passioni, le gioie e i dolori che i bambini imprimono sulle righe. Amo gli esiti di queste fatiche; amo gli errori e le opportunità che questi rappresentano. È stato inevitabile, quindi, pensare di portare in classe alcuni dei miei quaderni.
Una volta, a scuola, l’entusiasmo dei bambini mi ha travolta: abbiamo passato ore intere a sfogliarli e a leggere insieme i miei temi. La cosa che li ha colpiti maggiormente è stato l’utilizzo di parole «che non si usano più». Un bambino, guardando un mio disegno di una macchina da scrivere, ha esclamato: «Che bello! È uno di quei computer antichi che usano i poeti!» Sul momento, mi ha fatto molto ridere questa osservazione; poi ci ho riflettuto bene: effettivamente erano passati esattamente trent’anni da quando la me bambina aveva scritto quei temi. Mi sono resa conto in quel preciso istante che si stava intessendo una rete di cultura, si erano create delle connessioni tra la mia storia e quella dei bambini di fronte a me. Spesso noi insegnanti ci scervelliamo per stare al passo con loro, ma a volte dimentichiamo che anche loro hanno voglia e bisogno di stare al passo con noi. Anche tornare indietro è un modo per proseguire. Lo spiega bene Emily Dickinson, con la sua usuale garbata perfezione: proprio lei mi ha insegnato che «Rammemorare è una metà dell’anticipare, / a volte persino di più».
Tema di una ragazza di seconda media di Milano, 10 novembre 1944.
Quaderno di una bambina di prima elementare della provincia di Bologna, 1958.
Quando mi sono trovata, alle soglie dei quarant’anni, a cercare un argomento su cui basare la mia tesi di laurea, mi sono sentita in difficoltà: avevo ripreso l’università dopo un lunghissimo periodo di altrove, il mondo accademico mi appariva ormai estraneo, lontano. Ho sentito il bisogno di scrivere qualcosa che mi ricordasse di me, di dove mi trovassi in quel momento, che non mi distogliesse completamente del mio lavoro, ma anzi che lo accompagnasse e lo comprendesse. Che fosse un rifugio confortevole e non una strada senza cuore. Mi piacerebbe poter snocciolare aneddoti dal retrogusto fatale per raccontare la genesi della mia tesi, ma l’idea è arrivata come arrivano nella vita le cose belle: sbucano da chissà dove, all’improvviso, in un momento qualunque, e ti si appiccicano addosso. È così che è andata. Dall’idea iniziale, sopraggiunta mentre ero imbottigliata nel traffico cittadino dell’ora di punta, alla ricerca del materiale è bastato un clic. Se mi fossi laureata nei tempi canonici, questo clic non sarebbe stato possibile. (Ecco, sì: forse, in questo preciso punto, un barlume di destino c’è). È bastato un altro attimo soltanto per incappare nel sito di Quaderni Aperti, associazione culturale milanese che si occupa della raccolta e della presentazione al pubblico di quaderni di scuola e dello sviluppo di interessantissimi progetti culturali. È bastato inviare una mail per contattare Thomas Pololi, persona dalla squisita disponibilità prima che curatore dell’archivio. E mi è bastata la prima visita all’archivio per innamorarmi perdutamente di ciò che quel luogo offre: infinite reti di parole, racconti di vite, frammenti di storie e di Storia, quella maiuscola, che racconta un intero secolo dal punto di vista più sottovalutato e più cristallino di tutti: quello dei bambini.
Pensierini di un bambino di prima elementare di Plesio (Como), 25 marzo 1966.
Quaderno di scuola di una bambina di terza elementare di Grumo Appula (Bari), 1971.
Tema di una bambina di seconda elementare di Pescara, giugno 1975.
“Esercitazione dei dati visivi” sul quaderno di un bambino di terza elementare di Fino Mornasco (Como), 3 novembre 1995.
La tesi che ho scritto si prefigge lo scopo di raccogliere alcuni temi ospitati dall’archivio dell’associazione, intessendo delle connessioni tra alcuni di essi: connessioni che li legano nel tempo, nello spazio e all’interno del tessuto sociale lungo il corso del ventesimo secolo. Dal momento che gli studi sul tema risultano ancora piuttosto scarsi, con la mia tesi ho cercato di raccontare tra le righe la storia dell’italiano scolastico, quella varietà di lingua scritta e artificiale che è stata proposta dalla scuola ai bambini italiani che si accingevano a imparare la lingua nazionale. Il mio lavoro vorrebbe essere un piccolo contributo per eventuali studi futuri su questa varietà di lingua che non è più ma che ha ancora molto da dire, attraverso le voci troppo spesso ignorate dei bambini di oggi e di ieri: i testi che ho raccolto non sono che un piccolo saggio di quelle creature scritte che rappresentano un modo incantevole di raccontare il passato e il presente della nostra lingua e della nostra cultura.
Quando ho iniziato a scrivere la tesi, avrei voluto fare molto. Sicuramente molto più di quanto sia riuscita a fare. Poi varie deviazioni della vita hanno dato alla mia tesi la forma attuale. È stato un grande insegnamento per me: fa il meglio che puoi, lì dove ti trovi. Io l’ho fatto. Spero che in futuro qualcuno possa fare più e meglio di me. Penso ai miei alunni, ma non solo a loro. Penso che la vita in fondo sia questo: fare del nostro meglio nel punto in cui siamo e avere sempre accesa nel cuore la speranza che il nostro punto di arrivo sia il punto di partenza di un altrui cammino.
Testo di un bambino di quarta elementare di Fino Mornasco - Como, 26 novembre 1996.
Dal diario delle vacanze di una bambina di terza elementare di Milano, 1996.
Grazie a Thomas Pololi e a Quaderni Aperti per le immagini di questo post, originariamente pubblicate sul sito Quadernini.