[di Barbara Scotti]
La lettera sovversiva. Da Don Milani a De Mauro, il potere delle parole è un libro scritto dalla storica Vanessa Roghi e pubblicato dalle edizioni Laterza. Mi è sembrato un libro importante perché fa chiarezza sulla figura di Don Milani e su Lettera a una professoressa liberando il campo da inutili tifoserie e ricostruendo il contesto storico in cui quell'esperienza è avvenuta. Ma mi è sembrato ancora più importante perché, attraverso la definizione della dimensione storica, ci offre preziosi strumenti di riflessione sulla scuola attuale e sul livello di democrazia e di inclusività oggi presenti in essa. Queste ragioni mi hanno spinto a presentare il libro chiedendo alla sua autrice di rispondere ad alcune domande.
Inizio con il suo curriculum. Lei è una storica e ha insegnato per 10 anni Visualità e Storia all'Università La Sapienza di Roma. Può spiegarci cosa significa utilizzare le immagini nella didattica della storia?
L’uso delle immagini nella didattica della storia è indispensabile per interagire con l’immaginario storico degli studenti. Ognuno di loro infatti, fin dalla scuola primaria, è letteralmente invaso da immagini a contenuto storico, dai videogiochi ai giochi di ruolo, da youtube, alle serie televisive, la storia è diventata in questi ultimi 20 anni davvero lo sfondo per innumerevoli saghe che si rivolgono ai più giovani. Non possiamo prescindere da questo dato per insegnare loro la disciplina storica: questo approccio serve innanzitutto a “correggere” la cattiva comunicazione che a volte i media producono, per aiutare i ragazzi e le ragazze a districarsi fra visibile e vero, per rendere loro comprensibile il concetto di fonte audiovisiva e di presunta evidenza della stessa. Ma anche per valorizzare le loro competenze, per non farli sentire depositari di un sapere del tutto inutile. Come ha scritto l’educatrice inglese Cary Bazalgette: «Per più di un secolo la maggior parte dei bambini del cosiddetto mondo sviluppato è entrata a scuola con un repertorio di idee, impressioni, storie e informazioni ricavate dai mezzi di comunicazione di massa più popolari. Giornali, manifesti, fumetti, film, radio, televisione, giochi elettronici e internet hanno contribuito a creare i primi elementi di conoscenza di intere generazioni. E nella maggior parte dei casi è stato considerato compito prioritario della scuola fare il possibile per cancellare e riscrivere quel tipo di nozione, sostituendola con una forma più “giusta” di conoscenza da ritrovare in media più rispettabili come i libri» (C. Bazalgette, Teaching Media in Primary Schools, SAGE, London 2010, p. 1). Saper mettere in relazione il manuale scolastico con quello che i ragazzi vedono e credono di sapere è un’emergenza. Non c’è niente di estemporaneo nella dimensione culturale delle comunicazioni di massa. Né nel modo in cui si sono impossessate del monopolio nel racconto della storia. Si parla oggi nei paesi anglosassoni di media literacy: un processo di alfabetizzazione che interessa tutti, anche gli studiosi. Acquisire competenze in questa direzione è per gli storici di primaria importanza pena la definitiva perdita di un’egemonia sul discorso pubblico a contenuto storico, perdita già avvenuta in gran parte, ma ancora non del tutto.
Qual è il bisogno da cui nasce l'idea di scrivere La lettera sovversiva?
La lettera sovversiva nasce dalla percezione chiara di due fenomeni: uno di natura sociale, l’altro culturale. Parlo in primo luogo dell’ingiustizia che ancora incontriamo nei percorsi scolastici di molti bambini e bambine poi giovani studenti negli anni della scuola dell’obbligo. Un’ingiustizia che in qualche modo è un passo indietro gigantesco rispetto a decenni nei quali sembrava che comunque, passo dopo passo, la scuola italiana andasse verso una prospettiva non negoziabile di inclusione e di interclassismo. Ho voluto ricostruire questo percorso che dopo il 1947 sembrava non doversi mai interrompere. Non è andata così. Negli ultimi anni questa direzione è stata messa sempre più spesso in discussione e non solo, come avveniva in passato, da un fronte conservatore che naturalmente ha in antipatia un’idea democratica di scuola, ma anche, e questo mi preoccupa, da chi si percepisce progressista ma in realtà è tornato a pensare la scuola come un luogo dove vige spietata la selezione naturale, l’insegnante spiega, lo studente ripete, come ha scritto Paola Mastrocola che di questa “ideologia” scolastica è fra le teoriche indiscusse.
Da qui la questione culturale: credo che sia urgente fare chiarezza sui punti di vista, sui fronti contrapposti, sulle forze in campo, individuando ad esempio una genealogia possibile alla quale riferirsi. Io nel mio libro ho cercato di indicare in una prospettiva storica una linea possibile da valorizzare che parte dalla Costituzione, passa attraverso la battaglia di singoli e di istituzioni per attuarla, si compie nelle riforme degli anni settanta e ottanta. Ovvio ogni genealogia è una scelta di campo. Ma esplicita. Non c’è niente di più pericoloso di chi, invece, prende parte facendo finta di essere imparziale. Chi rimpiange la scuola della riforma Gentile non temperata dalle riforme repubblicane è liberissimo di farlo, ma lo dica chiaramente senza inventarsi che la scuola di “ieri” era migliore in assoluto. Quale ieri? Quello del 1923? Quello del 1955, quando la scuola primaria fu riformata? E poi migliore per chi? per quanti? per quali fasce d’età? E oggi peggiore in cosa? Strutture? Didattica? Accesso? Selezione? Dati alla mano vorrei una risposta chiara. Io nel libro la mia risposta a queste domande provo a darla.
La memoria su Don Milani è divisa fra chi lo santifica e chi lo demonizza. Il suo obiettivo, scrivendo questo libro, è quello di ricollocare nella giusta dimensione storica Lettera a una professoressa e il suo autore. Può dirci chi era Lorenzo Milani?
Beh per fortuna ci sono molte persone, studiosi, insegnanti, lettori che collocano don Milani esattamente dove deve stare: nella storia italiana del ‘900, anche in quella mondiale dato il grandissimo numero di traduzioni (qualche anno fa la Lettera è stata tradotta in cinese a Hong Kong). Poi è vero, a partire dai primi anni Novanta si è assistito a una progressiva distorsione militante della figura e del lavoro di questo prete toscano. Ma i motivi erano da trovarsi più nella biografia di chi scriveva che non in ragioni oggettive: molto spesso infatti l’attacco al “metodo” Barbiana è stato accompagnato da una complessiva rilettura in chiave tanto denigratoria quanto superficiale del “Sessantotto”, come se i due termini fossero inequivocabilmente legati e si bastassero a vicenda. Don Lorenzo Milani è morto il 28 maggio del 1967, era malato da molti anni. Viveva a Barbiana, una canonica sperduta del Mugello, faceva un servizio sostitutivo di una scuola pubblica che non c’era perché soprattutto le scuole medie erano lontane, quasi irraggiungibili. Fra il 1963 e il 1967 poi aveva visto l’attuazione della riforma delle scuole medie e ne era rimasto profondamente insoddisfatto, come moltissimi insegnanti del resto. Per capirlo, per capire la sua scuola bisogna allargare lo sguardo, vedere la lunga durata, le persistenze più che i repentini cambiamenti. Insomma bisogna esercitare senso critico e metodo storico ma è evidente che il mestiere di polemisti paga più e meglio di quello di studiosi se anche un fine studioso di linguistica ha potuto scrivere su «Il sole 24 ore» che «la scuola prefigurata dalla Lettera a una professoressa è giust’appunto quella che oggi tutti deprecano, avendola scoperta se possibile peggiore di quella che l’aveva preceduta, perché capace di creare, nel suo sgangherato egualitarismo, disparità e ingiustizie ancor più gravi di quelle imputate all’odiosa vecchia scuola». Una sfilza di banalità approssimative e inaccettabili.
Don Milani era un folle, un visionario oppure era figlio del suo tempo?
Penso ad altri intellettuali suoi contemporanei come Tullio De Mauro, Gianni Rodari, Mario Lodi, Pierpaolo Pasolini, Giorgio La Pira, Padre Balducci, che lei cita nel libro e che si sono occupati di temi analoghi a quelli trattati in Lettera a una professoressa.
Sicuramente era un uomo che vedeva in modo più chiaro di tanti altri quello che gli accadeva intorno, non perché fosse un visionario ma perché aveva gli strumenti analitici e di linguaggio per riconoscere e descrivere il mondo che lo circondava. Perché? Perché veniva da una famiglia nella quale l’esercizio critico del linguaggio, il ragionare sulle parole, la loro funzione, il loro significato era qualcosa che si faceva con i bambini fin dall’infanzia. Don Milani era stato un Pierino, figlio del dottore, come scrivevano i ragazzi di Barbiana nella Lettera. Il suo bisnonno Domenico Comparetti era un filologo, le ascendenze da parte di madre risalivano alla Trieste di Joyce della psicanalisi. A differenza di Gianni Rodari e Mario Lodi aveva imparato a fare scuola con i grandi, gli operai a Calenzano con la scuola serale. Si è subito reso conto dunque di come la lingua fosse uno strumento che in molti non possedevano nemmeno nell’età adulta. Sicuramente questo sguardo all’incontrario, cioè sul processo formativo visto a partire dai suoi esiti e non dai suoi inizi gli è servito a ripercorrere la scuola dell’obbligo in senso critico cercando di capirne le storture (parola che amava molto).
Le questioni della lingua, dell'uguaglianza di opportunità e dell'accesso all'istruzione mi sembrano ancora attuali. Ce ne può parlare?
Fra i temi individuati da don Milani sicuramente quello della lingua è uno dei più complessi e dei più attuali non solo perché come ha sottolineato Tullio De Mauro, il lavoro di don Milani illumina in modo inedito anche la tradizione che lo precede da Manzoni a Gramsci (e noi a quella tradizione non possiamo non continuare a guardare), una tradizione che individua nella storicità della lingua e delle sue funzioni il problema politico fondamentale, ma anche perché don Milani rivendica in modo chiaro il problema della lingua come strumento di partecipazione alla polis (una volta individuato un problema uscirne da soli è l’avarizia, uscirne insieme è la politica). Ora la battaglia contro l’avarizia è una delle più urgente dei nostri tempi: incredibile che alcuni abbiano potuto individuare in questo approccio donmilaniano un populismo ante litteram con derive di anti politica, niente è più politico dell’ I care, mi interessa, insegnato a Barbiana. Ma anche in questo caso credo che il fraintendimento nasca da mancanza di studio, quindi ho buone speranze che possa essere superato.
Lettera a una professoressa è frutto di un lavoro di collaborazione mutuato dall'esperienza di Mario Lodi. Quanto è importante la cooperazione all'interno della scuola?
Rispondo con una citazione da Lettera a una professoressa: «Barbiana, quando arrivai, non mi sembrò una scuola. Né cattedra, né lavagna, né banchi. Solo grandi tavoli intorno a cui si faceva scuola e si mangiava. D’ogni libro c’era una copia sola. I ragazzi gli si stringevano sopra. Si faceva fatica a accorgersi che uno era un po’ più grande e insegnava. Il più vecchio di quei maestri aveva sedici anni. Il più piccolo dodici e mi riempiva di ammirazione. Decisi fin dal primo giorno che avrei insegnato anch’io». La scuola insomma, è una comunità auto educante: i più grandi, i più bravi aiutano i piccoli o i compagni in difficoltà. Don Milani è convinto di questo fin dai tempi di Calenzano e della scuola serale, ma a Barbiana, grazie all’incontro con il maestro Mario Lodi, don Milani inizia a ragionare sull’importanza della scrittura collettiva che è un modo per verificare e arricchire il bagaglio delle competenze acquisite a scuola con il confronto con gli altri. Scrive don Milani a Lodi: «La ringrazio d’averci proposto quest’idea perché me ne son trovato bene, è successo un fenomeno curioso che non avevo previsto, ma che dopo il fatto mi spiego molto bene: la collaborazione e il lungo ripensamento hanno prodotto una lettera che pur essendo assolutamente opera di questi ragazzi e nemmeno più dei maggiori che dei minori è risultata alla fine d’una maturità che è molto superiore a quella di ognuno dei singoli autori. Spiego la cosa così: ogni ragazzo ha un numero molto limitato di vocaboli che usa e un numero vasto di vocaboli che intende molto bene e di cui sa valutare i pregi, ma che non gli verrebbero alla bocca facilmente. Quando si leggono ad alta voce le venticinque proposte dei singoli ragazzi accade sempre che o l’uno o l’altro (e non è detto che sia dei più grandi) ha per caso azzeccato un vocabolo o un giro di frase particolarmente preciso o felice. Tutti i presenti (che pure non l’avevano saputo trovare nel momento in cui scrivevano) capiscono a colpo che il vocabolo è il migliore e vogliono che sia adottato nel testo unificato. Ecco perché il testo ha acquistato quell’andatura e quel rigore da adulto (direi anzi da adulto che misura le parole! animale purtroppo molto raro)». Bello, semplice, utile e possibile ancora oggi.
Cosa possiamo salvare e portare con noi dell'esperienza di Barbiana?
Un po’ di cose credo siano già emerse nel corso dell’intervista. Poi bisogna essere molto chiari: don Milani non ha certo fondato una scuola né indicato un metodo. La sua è la risposta contingente a problemi contingenti, che sono del luogo (Barbiana) e del tempo (il 1967 a 4 anni dalla riforma delle scuole medie ancora in larga parte disattesa o insoddisfacente nei suoi esiti). In molti si sono interrogati del resto su questa questione, invito dunque a leggere le bellissime riflessioni di Luis Corzo, o di Ernesto Balducci, fra gli altri. Io, per quanto possa essere interessante l’indicazione di una studiosa di storia, penso che dall’esperienza di Barbiana abbiamo il dovere di imparare una lezione fondamentale: bisogna dare a tutti eguali strumenti, possibilità, parole. Bisogna riportare gli esclusi nella polis, questa è la politica, questo è il senso di una scuola democratica. Per farlo bisogna osservare il contesto ed essere pronti a cambiare metodo perché i bambini e le bambine di oggi sono diversi da quelli di 10 anni fa. Anche gli insegnanti devono cambiare con loro.