Il rovescio della guerra

[di Silvia Vecchini]

Nelle stesse ore in cui leggevo un libro insieme ai bambini di sette anni, sulla chat del mio telefono arrivavano messaggi come questo:

In arrivo da Charkiv, non hanno più nulla, hanno bisogno di tutto. Qualche misura:

  • Ragazzina 15 anni, 163 cm, taglia 44?, scarpe 37
  • Bambino 7 anni, 128 cm, scarpe 33
  • Bambino 4 anni, 116, scarpe 28
  • Bambino 9 mesi, 74 cm

Messaggi che poi giravo ai miei figli che si stavano adoperando attraverso raccolte e collette di alimenti, farmaci, indumenti. Hanno già esperienza, lo hanno fatto altre volte e sanno come si fa. Sono grandi e, nel fare, cercano di dare un senso a qualcosa che non lo ha. I bambini più piccoli non hanno nemmeno questa possibilità. Assorbono pezzi di notizie, tensioni, preoccupazioni, angosce, assistono alle nostre reazioni, registrano i discorsi quando noi non pensiamo ci stiano ascoltando.

Ho pensato tanto a che cosa portare ai bambini in questi giorni. Anche perché a breve molti di loro incontreranno bambini che sono fuggiti dalla guerra. Nel mio piccolo comune, nei prossimi giorni, ne entreranno a scuola circa venti. Intanto ho messo da parte il breve frasario e le flash card che alcune traduttrici del gruppo Traduttori per la pace hanno predisposto per accogliere nelle nostre scuole i bambini che vengono dall'Ucraina. Si tratta di brevi frasi da usare nei primissimi giorni.

Qui trovate tutto il glossario.

Qui tutte le flash card.

Ho capito che di fronte a un evento così drammatico e complesso, oltre a prepararsi all'incontro in un futuro molto vicino e provare a rispondere alle domande, io desideravo portare ai bambini il rovescio della guerra. Ho scelto di leggere Il viaggio sul pesce scritto e disegnato da Tom Seidmann Freud, uscito nel 1923 e pubblicato in Italia da Topipittori dove alla storia segue un'appendice interessante, intensa.

Questa storia racconta il sogno di un bambino che a cavallo di un pesce raggiunge un paese dove regnano la pace, l'armonia, la bellezza, la fraternità. Ognuno contribuisce, si costruisce insieme, i bambini partecipano a tutto. Non esistono minacce, né violenza. Un sogno in forma di fiaba. Forse anche per questo i bambini erano letteralmente rapiti. O forse nel leggere di pace riconoscevano in controluce qualcosa dello spavento che ha preso i grandi durante questi giorni. I bambini vogliono sapere da che parte stai, chiedono sempre il tuo giudizio e vogliono la conferma di stare dalla parte giusta. La loro parte è la pace.

Abbiamo un accordo. La prima volta che leggo un albo illustrato, loro ascoltano in silenzio. La seconda volta riprendo da capo, ma sono loro a raccontare la storia ricordando le sequenze e aggiungendo particolari che vengono direttamente dalla loro interpretazione delle parole e ancora di più delle immagini. È il momento più bello. Costruiscono il senso della storia un pezzetto alla volta, con l'accordo degli altri. Si va avanti insieme.

Sulla prima pagina siamo rimasti parecchio.

‟Le case in questo posto sono brutte, il bambino vorrebbe andare via”

‟Sono rotte”

‟Sono storte”

‟Ci sono delle crepe sui muri”

‟C'è stato un terremoto forse”

‟O un uragano!”

‟Anzi quella cosa che arriva un'onda grande e sommerge tutto e poi tutto è come distrutto”

‟Lo tzunami!”

‟Sì, quello!”

‟Forse è un posto disabitato”

‟Io vedo un'ombra sulla finestra, forse c'è un fantasma”

‟In questo posto sono morti”

‟Forse sono andati tutti via perché c'era la guerra”

La guerra non era il tema del nostro incontro, ma ormai il viaggio di Peregrin è iniziato e noi siamo pronti per ripercorrerlo.

Molto emozionante è adesso prepararsi con Peregrin a entrare nella nuova città. Una frase arriva a dirci che, anche se pieno di timore per la nuova realtà che sta per conoscere, non poteva fare a meno che andare. ‟Già a casa non si sentiva proprio al sicuro...

I bambini trovano conferma di aver ben interpretato la prima pagina, la prima immagine. Quello era proprio un luogo da cui scappare, a piedi nella realtà, o nel sogno a cavallo di un pesce. Peregrin ha paura, non alza nemmeno lo sguardo, non sa che lingua parlano gli abitanti né se lo accetteranno. A questo punto un bambino mi dice che Peregrin è come D.

‟Chi è D.?” chiedo io fingendo di non sapere.

‟La bambina seduta nell'atrio. È appena arrivata, non parla.”

Avevo già incontrato D., viene dal Marocco, entrerà in quinta, non conosce per niente l'italiano e questo è il suo secondo giorno a scuola. Una maestra, in modo molto premuroso, le ha trovato un banco in un luogo tranquillo dove stare per riprendere un po' fiato dall'incontro con una realtà nuova. Così D. ha il suo posto in classe, ma anche uno fuori. Sono colpita dall'osservazione del bambino perché D. è davvero, esattamente, come Peregrin. L'ho appena salutata cercando di trattenermi un poco, vedendo quanto era tesa a ogni saluto e come guardava con serietà il disegno dello schema corporeo con scritte le prime parole: viso, occhi, bocca.

Chiedo se vogliamo continuare con Peregrin, mi rispondono sì.

Riprendiamo a ripercorrere la storia.

Due bambini accolgono Peregrin e gli parlano chiedendo con gentilezza come è arrivato.

Questa parte piace molto ai bambini. Perché le domande che fanno a Peregrin sono dolci, ma anche curiose. Come se Peregrin potesse portare una qualche novità interessante. Ed è giusto che sia così. Sono i grandi che si aspettano sempre poco dagli altri.

Peregrin riceve anche dei nuovi vestiti e viene invitato a mangiare cose buone. Poi inizia la sua vita nella città, non sembra essere più un ospite, ma un cittadino di questo luogo in cui tutti possono dare il meglio di se stessi, c'è ascolto dei più piccoli e attenzione per i più deboli. Peregrin può raccogliere ciliegie, costruire una casa, leggere e studiare, andare per la campagna, coltivare il giardino, sentirsi profondamente vicino a ogni cosa.

I bambini sono d'accordo con Peregrin, questo è il luogo più bello che esista. Così andrebbero fatte le cose.

Torniamo a D.  Chiedo: ‟Sapete perché D. non parla?”

‟Non sa la nostra lingua”

‟Ha paura”

‟È timida”

‟Non sa che diciamo”

‟È appena arrivata”

‟E voi che fareste se foste in una classe nuova senza saper parlare la lingua degli altri bambini?”

‟Io starei zitto”

‟Io piangerei”

‟Io non vorrei mai andarci”

‟Io non so le altre lingue, i miei genitori non devono neppure pensarci di andare in un altro posto!”

‟Cosa potremmo fare per farla stare più a suo agio?”

‟Salutarla”

‟Farle un regalo”

‟Aspettare”

‟Dirle delle parole che poi le sa e può parlare”

‟La prima parola che vorreste dirle?”

‟Ciao”

‟Sì, è facile”

‟Vogliamo farlo?”

‟Sì.”

Scriviamo dei biglietti con una sola frase: Ciao, benevenuta, io sono...

Ciascuno mette il suo nome.

Chiediamo il permesso di portarglieli nell'atrio durante la ricreazione.

Ogni bambino si presenta dicendo esattamente quello che c'è sul biglietto. Si tolgono la mascherina per pronunciare il proprio nome e fare un sorriso. Anche D. sorride finalmente! I bambini sono più piccoli di lei, forse semplicemente le fanno tenerezza, ma di certo è felicemente sorpresa e non ha paura. Ringrazia.

I bambini sono contenti di aver fatto proprio come i bambini del viaggio sul pesce. D. non ha bisogno di vestiti e la merenda ce l'ha, altrimenti di sicuro avrebbero provveduto anche a quello.

Che cosa c'entra con la guerra in Ucraina? Probabilmente poco. O forse no. A scuola si fanno ogni giorno centinaia, migliaia di gesti simili a quello che noi abbiamo fatto per salutare D. Ogni giorno e nel più assoluto riserbo. Io credo che sia questo il modo di praticare la pace. Scegliere di continuare su questa strada al riparo dall'ansia, cogliere il momento opportuno, ma senza per forza rispondere immediatamente a ogni sollecitazione, riconoscere che occorre prendere tempo rispetto a qualcosa che getta nell'angoscia anche noi. Fare, discutere, parlare, accogliere domande e sentimenti nella giusta intimità della classe. Senza spettacolarizzazioni, senza fretta, senza portare la nostra incertezza ai bambini o proposte di facciata, scomposte o esagerate, illeggibili per loro. A volte dannose (qui un interessante intervento di Paola Nicolini, docente di psicologia all’Università di Macerata, che da anni si occupa di informazione a misura di bambini).

Quindi bene parlarne direttamente se arrivano domande da loro, circoscrivendo, dando le informazioni necessarie e non facendo paragoni tra cose che non hanno nulla di comparabile. E nel rispondere, farlo con la certezza di chi conosce la scuola e sa come funziona. Come ha scritto Michele Longo (insegnante della primaria) con la solita intelligenza e ironia: "Così, a occhio, mi pare che parlare della guerra in classe serva perché si comincia e poi si finisce, come tutte le cose a scuola. Poi c'è l'intervallo, o si va a casa".

Per lavorare in profondità e nello stesso tempo con delicatezza, si possono cercare albi e letture adatti ai bambini di quella classe, che abbiano qualcosa da dire dentro al percorso che già stanno facendo (qui due bibliografie che possono essere utili: un articolo di Scaffale Basso e un video di Testefiorite). Per il resto, oltre a far capire ai bambini che vediamo e condividiamo il loro desiderio di pace, mi sento di dire che portare a scuola la pace vuol dire soprattutto fermarsi a pensare al modo in cui lo facciamo. Di più, pensare al modo in cui facciamo ogni cosa.

Qualche tempo fa, in una formazione per insegnanti, ho condiviso una piccola riflessione che comprendeva le parole di Alexander Langer: «Citius altius e fortius era un motto giocoso di per sé, era un motto appunto per le Olimpiadi che erano certo competitive, ma erano in qualche modo un gioco. Oggi queste tre parole potrebbero essere assunte bene come quinta essenza della nostra civiltà e della competizione della nostra civiltà: sforzatevi di essere più veloci, di arrivare più in alto e di essere più forti. Questo è un po' il messaggio cardine che oggi ci viene dato. Io vi propongo il contrario, io vi propongo il lentius, profundius e soavius, cioè di capovolgere ognuno di questi termini, più lenti invece che più veloci, più in profondità, invece che più in alto e più dolcemente o più soavemente invece che più forte, con più energia, con più muscoli, insomma più roboanti. Con questo motto non si vince nessuna battaglia frontale, però forse si ha il fiato più lungo.» (Alexander Langer dal testo del suo intervento al Convegno di Assisi, 1994).

Mi sembra un consiglio perfetto per la scuola che per l'appunto non è il terreno di una battaglia frontale, ma il posto dove recuperare le energie e un po' di respiro. Per tutti. E ancora di più per tanti bambini e tante bambine che, senza chiamare in causa la guerra, per le motivazioni più diverse non vivono situazioni serene, ma segnate da dolorosi e duri conflitti. Anche per questo lavorare per la pace potrebbe essere questo procedere più lenti, più in profondità e più dolcemente in ogni cosa che facciamo insieme a loro e per loro. Che è il contrario del rincorrere progetti, giornate nazionali, mondiali, urgenze dettate dall'attualità che chiedono certamente una riflessione, ma in primo luogo la chiedono agli adulti.

Se penso a che cosa ci può aiutare, oltre alla lettura condivisa degli albi illustrati, io penso naturalmente alla poesia. Christian Bobin, nel suo piccolo e prezioso libro, dice come sia difficile, ma fattibile abitare poeticamente un mondo miserabile, quanto sia necessario che si aprano pozzi di luce, come gli istanti di contemplazione siano istanti di grande tregua (Abitare poeticamente il mondo, AnimaMundi edizioni). Lo sguardo poetico è uno sguardo che si posa senza afferrare, senza forzare. Portare a scuola questo sguardo è costruire la pace. Restare saldi in questa pratica che sembra occuparsi di cose inutili e in-misurabili, può cambiare davvero le cose.

Pagine da Cose in-misurabili di Ayumi Kudo.

Qualche giorno fa, per un incontro pubblico, ho voluto riprendere dallo scaffale La pace è ogni passo, un libro di Thích Nhất Hạnh scomparso il 21 gennaio scorso. Ho letto un piccolo paragrafo in cui il monaco invitava a guardare la propria mano per vedere in essa la nostra origine, le generazioni che ci hanno preceduto e chi verrà dopo, sentire la rete di relazioni che ci connette gli uni agli altri e non solo. Dice Thích Nhất Hạnh: «Quando la mia nipotina è venuta a farmi visita l'estate scorsa, le ho offerto il tema di meditazione Guarda nella tua mano. Le ho detto che nella sua mano è presente ogni sassolino, ogni foglia, ogni farfalla».

Non credo sia un caso che Chandra Candiani, nel suo libro Ma dove sono le parole? (Effigie), un'antologia dei testi dei bambini delle periferie multietniche di Milano elaborati durante i suoi seminari di poesia, nella sezione Autoritratto ne abbia raccolti alcuni che hanno come tema la mano. Autrice dei due meravigliosi saggi Il silenzio è cosa viva e Questo immenso non sapere (Einaudi), questa poeta straordinariamente vicina ai bambini ha portato il loro sguardo sul palmo della mano, avendo fiducia nel loro vedere e di fatto aprendo una tregua di contemplazione.

In questa tregua, la poesia offre pozzi di luce in un mondo miserabile. Si dedica alle cose in-misurabili e invisibili, ma non per questo trascurabili. Anzi, è evidente che queste siano indispensabili, proprio quello di cui abbiamo bisogno quando cerchiamo la pace.

E in questi momenti, chi sta a contatto con l'infanzia, è bene che ricordi che «i bambini non sono terra desolata dove portare luce; la luce sono loro; ogni bambino ha/è una sua propria luce; primo compito e prima attenzione degli adulti è non spegnerla» (Giusi Quarenghi nel suo bellissimo articolo Siamo qui, dove non so per il numero zero della rivista Quarantotto, Topipittori).

Quindi più lentamente, più in profondità, più dolcemente, la poesia può aiutarci a non spegnere la luce che sono/hanno i bambini, può aiutarci a vedere meglio e può illuminare anche noi. Se la luce sono loro, non sarà la bandierina che coloreremo in classe a insegnargli che cosa è la pace, se mai possono loro dirci qualcosa a riguardo, quale beneficio possiamo avere da una tregua che viene dall'attenzione alle cose vive e vere.

Basta guardare alcuni scatti del progetto Sirkhane DARKROOM, curato dal fotografo Serbest Salih, che permette ai bambini e agli adolescenti che vivono in Turchia al confine con la Siria di fotografare ciò che li circonda. Da questo progetto è nato un libro di una bellezza commovente: I saw the air fly (2021) pubblicato da MACK. Alla fine del libro fotografico, Serbest Salih afferma: «Quando guardi queste fotografie raccolte insieme, vedi bambini che condividono momenti veri della loro vita: dentro le loro case, con i loro amici, con la famiglia. Non sono le fotografie che gli adulti si aspetterebbero di vedere da bambini cresciuti circondati da conflitti; non sono fotografie di traumi o tristezza. Sono una testimonianza della resilienza dell’immaginazione infantile, del potere curativo della fotografia e dell’incantevole prospettiva dell’infanzia».

Quando ho letto ai bambini di prima Il viaggio sul pesce abbiamo anche scritto brevemente, su alcuni piccoli pesci di cartoncino rosso che avevo ritagliato per loro, quali erano i nostri momenti di pace.

‟Quando sto con la mia mamma”

‟Quando mi riposo”

‟Aiuto qualcuno”

‟Vado in bicicletta vado in giro alla piazzola in estate e corro”

‟Si sta insieme”

‟Chiedo scusa”

‟Sto con papà e con il mio amico”

‟Sto con le mie amiche”

‟Dipingo”

‟Sto con la mia mamma”

‟Gioco con mia sorella Caterina”

‟Sto calmo e in pace”

‟Guardo dal mio balcone e vedo la luna”

‟Vado a spasso dietro la casa dei nonni”

‟Sto con mamma e papà”

‟Gioco con Gabriele a palla”

‟Vedo il panorama del bosco”

‟Io e mamma compriamo la pizza”

‟Disegno”

La pace per i bambini è una cosa semplice. È esattamente quella che si vede nelle foto di I saw the air fly: gli amici, il gioco, la famiglia, il silenzio, la natura, le storie. Un bambino, uno dei bambini che amo di più, mi ha scritto proprio così: La pace è quando mi racconti le storie. E dietro al pesce di cartoncino ha disegnato se stesso e me accanto a lui. Sopra di noi un libro con un cuore dentro. Il libro è aperto e rivolto verso il suo sguardo. È un bambino che vive una dura battaglia. Che cosa ci trova nelle storie?  Io credo che ci trovi una piccola tregua di pace.

I pesci li abbiamo legati a un filo. Una catena, una collana di pesci rossi per ricordarci questo sogno di Peregrin che "non è ancora del tutto vero", ma che ci piace così tanto.

Ogni foto del libro I saw the air fly, come ogni poesia di Ma dove sono le parole, ogni pensiero scritto spontaneamente dai bambini, lascia in me la stessa impressione e cioè quella descritta da Bobin: un pozzo di luce che si apre e si lascia guardare. Dentro c'è la pace anche in mezzo alla guerra. Non come una consolazione (ah, come sono ingenui i bambini, come sono teneri! come basta poco a loro per essere felici! hanno mille risorse!), ma al contrario come una critica diretta agli adulti.

Gabriella Caramore, nel suo libro Come un bambino. Saggio sulla vita piccola (Morcelliana) scrive che «l'infanzia è di per sé una condizione antagonista al mondo adulto. Rappresenta l'alterità rispetto al mondo che ordinariamente si struttura su fondamenta di interesse, di profitto, di sicurezze, di pregiudizi. Se proviamo ad ascoltare le parole dell'infanzia, a sostenere lo sguardo che i bambini ci rivolgono, dobbiamo vedere che l'infanzia rappresenta una critica feroce del mondo adulto e della sua mediocrità, della sua arrendevolezza all'abitudine, alle convenzioni, alle menzogne, alle pigrizie».

In questi giorni terribili, sostenere lo sguardo dei bambini, prendere sul serio le loro parole, rispondere alle loro domande, portare insieme lo sguardo su una pagina come quella in apertura della storia di Peregrin o sul palmo della mano per sentirci connessi con tutti e tutto, prepararsi ad accogliere con delicatezza e riservatezza chi è dovuto scappare dalla guerra lasciando tutto, è una grande occasione per sentirsi scomodi.

Durante la lettura di Il viaggio sul pesce, alla loro chirurgica attenzione per esempio non è sfuggita l'affermazione che nel paese descritto non c'è bisogno di denaro, semplicemente il denaro non esiste. Abbiamo parlato anche di questo. E allora mi è venuta in mente una poesia di Edoardo Sanguineti contenuta nella celebre raccolta Pin Pidìn poeti d'oggi per bambini (Feltrinelli), a cura di Antonio Porta e Giovanni Raboni, uscita nel 1978. Come si dice nell'introduzione, questa poesia è una piccola lezione di storia.

«Che cosa c'è dietro la storia, i re e le loro paci? Il denaro. Che cosa c'è dietro la nostra storia di uomini assediati dalle nozioni e da mille oggetti quotidiani? È sempre il denaro. È il denaro che scrive la storia con l'aiuto dei generali e delle mitragliatrici. Ma dietro che cosa c'è? Il niente che viene prodotto da una storia che nasce dai rapporti di forza tra i potenti. Il più forte ha dunque sempre ragione. Occorre spezzare l'egemonia, cioè il dominio, del denaro. Ma quel niente ha anche un altro significato: la storia prodotta dal denaro è il frutto delle guerre e invece di dare valore alla vita raggiunge il risultato opposto: la cancella».

La poesia è la seguente. E finisce proprio così. Immaginatevi però che continui con la pagina bianca. Anche quella è un pozzo di luce. Qui come adulti possiamo come guardarci allo specchio e, grazie ai piccoli che chiedono, domandano e ci interrogano (sembra di sentire la voce del figlio del poeta e di ogni bambino che chiede), ci portano davanti al nostro niente. Per risvegliarci.

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questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti il foglio, Alessandro, ci vedi il denaro;

questi sono i satelliti di Giove, questa è l'autostrada del Sole,

è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la Scuola d'Atene, è il burro,

è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,

è il parto:

ma se volti il foglio, Alessandro, ci vedi

il denaro;

e questo è il denaro,

e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette

di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:

ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente: