La Scuola Grande dell’infima conoscenza

da un’idea di Chiara Guidi  in dialogo con Vito Matera

[di Chiara Guidi]

Foto di Nicolò Gialain.

Nell’estate del 2020, allo Sferisterio della Rocca di Cesena, prende forma la prima Scuola Grande* (SG) rivolta agli adolescenti della città.

Si colloca all’aperto per dare al teatro un posto, alla luce vespertina di alcune giornate di fine agosto. Nello spazio vi sono due iscrizioni su marmo: ci informano che lo Sferisterio fu sia luogo del gioco della palla che luogo di morte per la fucilazione di alcuni giovani partigiani durante la Seconda Guerra Mondiale. Sono ancora visibili i fori della fucilazione. Buchi. Lo spazio è un lungo rettangolo il cui perimetro è delimitato su un lato da un muro imponente. Con la sua presenza quel luogo diventa un posto, uno spazio “fisso” che la SG sceglie per interrogare il linguaggio del teatro come forma di conoscenza insieme a un gruppo di adolescenti.

Ci siamo incontrati sette volte e sempre abbiamo camminato rivolti verso il Muro che, come “pittura muta”, delimita, guarda, attira, impedisce, attende chi passa… gesti gravidi di senso che provengono dalla sua apparente immobilità. Osservarlo è già un inizio che compie qualcosa. L’inizio di una scoperta. Lui sembra fermo e silenzioso mentre in realtà, come una bottiglia di acqua, è un fermento di attività.

La SG è nuda, al grado zero della tecnica. Orienta le presenze attraverso esercizi di breve durata: azioni che ogni adolescente interpreta in modo libero intrecciandosi con lui, il Muro, e con il luogo nel quale il Muro si trova, ben sapendo che la stessa azione, compiuta in un altro posto, sarebbe diversa. Attraverso gli esercizi nascono visioni spontanee, abbozzi di mondi multipli che si intrecciano, per cui, azione dopo azione, la percezione dello spazio varia grazie a chi la compie e a chi vi assiste. Spuntano tracce di lontani racconti: unità minime, gravide come molecole che attendono in potenza processi futuri con aggregazioni sempre più complesse.

Foto di Simona Barducci.

Gli esercizi sono artifici che si ispirano alle preposizioni. Generano rapporti di reciprocità in relazione all’architettura dello spazio d’azione; diventano il principio del fare e dell’interpretare e, come strumenti, mettono in relazione l’adolescente e il Muro. Lì, in quel posto, in quella precisa posizione, tutto agisce l’uno con l’altro, nell’altro, sopra e sotto l’altro, per l’altro, sull’altro: preposizioni come accenti per esprimere il valore di ogni singolare intenzione, non solo degli adolescenti, ma anche del Muro che altrimenti non potrebbe spostarsi da lì.

Gli esercizi sono svolti in sequenza: uno esegue mentre gli altri osservano. All’inizio si accoglie ogni interpretazione, poi pian piano si precisa con cura ogni gesto, ogni parola, si prende coscienza dei vari elementi. Si prende sul serio la percezione di chi ha fatto e di chi ha visto: dati grezzi e ineffabili vengono studiati con profondità. La tecnica dell’esecuzione deve essere esatta per consentire a coloro che guardano di poter dire poi cosa hanno visto. Allo stesso tempo le parole di chi ha visto devono far vedere ciò che non c’è più.

Foto di Simona Barducci.

Sia chi interpreta, sia chi cerca di esprimere ciò che è accaduto sono in tensione verso la definizione di una forma flessibile: un piccolo frammento ripetibile. La parte di un tutto svolto con cura, come garanzia di possibili intrecci futuri. Ogni adolescente mette a fuoco una propria esecuzione e molte sono le variabili dell’esercizio proposto. Al termine di ogni prova, tutte le variabili vengono sovrapposte e svolte contemporaneamente all’interno di un unico tempo compositivo, in relazione alla mutua indicazione del Muro: «Di là! Dall'altra parte, lontano».

Fotografiamo e riprendiamo lo svolgimento di alcuni esercizi: immagini apparentemente insignificanti perché strappate e isolate rispetto a un tutto, come punti che si distaccano dal loro posto sulla linea. Le pubblichiamo in un diario digitale che non permette a nessun altro di accedervi se non a coloro che, essendo stati presenti agli incontri, le riconoscono e le riportano in un orizzonte. Nel diario digitale ogni giornata è raccontata non solo attraverso alcune foto e video ma anche attraverso brevi frasi che testimoniano quanto è accaduto. A questi documenti aggiungiamo liberamente altre fonti strappate alla poesia, alla storia dell’arte, nonché tracce sonore: una sorta di “atlante” per creare connessioni tra gli esercizi della SG e quanto la nostra mente mette in relazione con essi. Richiami, sensazioni, somiglianze, analogie, echi... che ciascuno raccoglie là dove si trova e pubblica nel diario. Una danza di neuroni che trasmettono un contenuto cosciente ad altri che la memoria evoca. Processi.

Il diario ha come scopo quello di riorganizzare, alla luce dell’esperienza vissuta nella SG, ciò che ciascuno sa o scopre di sapere o ricorda. Un intreccio di conoscenze varie, alle quali se ne possono aggiungere sempre di nuove: un continuo scambio di informazioni tra aree distanti della coscienza. Per questo la SG ha bisogno della scuola pubblica e di tutte quelle informazioni che l’adolescente apprende in famiglia oppure dal dialogo con i compagni e navigando in internet. Lì, davanti a quel Muro, c’è molto, ed esso desta quell’infima conoscenza che vive in un pozzo profondo.

Dall’alto: Lato palestinese del muro di separazione in Israele tra la città di Betlemme in Cisgiordania e Gerusalemme; Muro di separazione al confine tra Stati Uniti e Messico sull'Oceano Pacifico.

Un giorno il vento spirò forte.

Un’altra volta volò un piccione.

Un’altra ancora passò l’assordante rombo di un motore.

Ogni cosa, in quel posto, anche inaspettata e, soprattutto, non programmata doveva richiamare la nostra attenzione per diventare un punto vicino ad altri punti perché lì tutto faceva parte di un’unica composizione. In quello spazio, tutte le presenze (anche quell’uomo che si allenava ponendo mani e piedi per arrampicarsi tra le pietre sul muro) interagivano, le une con le altre, secondo “la grammatica delle preposizioni”, modificando continuamente la nostra percezione delle azioni.

Protési all’ascolto, per creare una nuova rete di interazioni, sperimentavamo l’essere stranieri a noi stessi. Non era possibile vedersi isolati: eravamo sempre sovrapposti.

Coloro che osservavano, al termine di ogni esercizio, dicevano quello che avevano visto e, attraverso piccoli racconti, evidenziavano il modo nel quale un gesto, una parola o una pausa – e timbri e toni – avevano aggiunto un nuovo colore alle cose.

Con coscienza, di fronte al Muro che di tanto in tanto diceva: «Muro».

Un giorno, in base a un esercizio, gli adolescenti immaginarono di aprire molte porte. Una dopo l’altra per avvicinarsi al Muro e toccarlo con entrambe le mani. Poi all’improvviso restavano immobili, con i corpi in tensione e le braccia alzate.

Una pausa.

Quel tempo sospeso doveva contenere una nuova azione: cadere a terra dopo aver ricevuto una spinta di fisica repulsione. Il tempo della pausa allontanava l’adolescente dal Muro o era il Muro che, apparentemente immobile, lo spingeva con tutta la sua forza? Nella pausa tra ciò che avveniva prima (aprire le porte) e ciò che avveniva dopo (cadere a terra) era nascosta un’altra azione: lì, in quel vuoto, si annidava una storia che il tempo legava a sé, con lo spazio e gli altri elementi.

La pausa era immobile come il Muro e dimostrava che, anche se vediamo o ascoltiamo, non possiamo vedere tutto: quella inazione era, in realtà, il fuoco dell’immaginazione.

Foto di Nicolò Gialain.

Per questo, coloro che osservavano lo svolgimento degli esercizi, con fatica cercavano le parole per dire quello che avevano visto.

Parole che dovevano far vedere ciò che dopo l’esercizio non era più evidente: parole ombra, che rimandavano alla interrelazione tra le proprietà delle cose.

Abbiamo ascoltato l’inizio di molti racconti: incipit di trame, non informazioni, né spiegazioni. Un gioco di punti di vista: roteazioni dove gli occhi di ciascuno attraversavano in diversi modi quegli elementi che l’esercizio fissava come nodi. Le varie interpretazioni divennero percorsi che poi sovrapponemmo tra loro formando nuovi stimoli per la nostra percezione. Dovevamo sentire tutto insieme, non una cosa per volta, e piegare gradualmente la nostra sensibilità alla complessità delle relazioni. Di solito siamo concentrati su ciò che facciamo da soli. Per dilatare, allora, la coscienza della nostra percezione e ridestare le sensazioni, avevamo bisogno di quel molto che viveva nello sguardo limpido del Muro.

Incontro dopo incontro, l’esercizio con i suoi artifici assunse il valore del processo di lavoro: un moto perpetuo di inesauribili possibilità allo Sferisterio della Rocca. In quello spazio che era divenuta la nostra scena, la SG cercava il teatro, pur senza pensare allo “spettacolo”. Si sperimentava un metodo di lavoro attraverso il quale tutto poteva manifestarsi in modo variabile, passando da un mondo di connessioni a un altro.

«Cosa hai fatto? Cosa hai visto?» era la domanda prima di ogni messa a fuoco, una presa di coscienza per attirare nuove correlazioni. Forse quel fuoco richiamava il vento o il piccione. Dilatava lo spazio.

Dall’alto: foto di Nicolò Gialain; foto di Simona Barducci.

Per questo la scuola è grande, pur essendo nuda. Non utilizza luci o suoni registrati né, tantomeno, informazioni sulla storia del muro, sulla geografia del luogo, né spiegazioni sull’arte della costruzione… cerca la messa a fuoco. Tocca. Rende problematica l’azione del fare per restituire ai sensi la loro capacità di dare l’infinito alle cose, il loro nome, come fanno i bambini che con il corpo accorciano la distanza tra se stessi e il mondo. Dentro, e non fuori, usano le mani per unire i nomi a ciò che vedono. La SG, toccando, prima sente, poi chiama. Intuisce la presenza di una traccia, un segno, la preistoria di un racconto. Un lampo che, anche se rischiara, non illumina. Per questo la SG chiede aiuto alla scuola pubblica. L’affianca perché ha bisogno di un insegnante.

Da sinistra, in alto: Odilon Redon, Silenzio, 1900; Jean Dampt, Alexandre Bigot, Le silence, 1897; Statua di Arpocrate; Giotto, Allegoria dell'obbedienza, 1315.

In fondo quel segno è lo stesso che si trova nascosto nella storia, nella letteratura, nelle scienze matematiche, nella fisica e nella chimica, nella storia dell’arte e del pensiero che il docente insegna. Nelle materie della scuola vi è sempre un segno nascosto e il docente lo ha sperimentato studiando e continuamente cercando la materia che insegna. In questo modo egli invita tutti coloro che lo ascoltano a studiare con sforzo e dedizione. Non vuole informazioni ma la percezione di quel segno profondo che la materia nasconde, così da poter creare nuove connessioni. Lo studio, allora, non può limitarsi a guardare le cose dall’esterno ma le deve far scendere nelle viscere di un corpo, in quel pozzo profondo pieno di elementi che, senza saperlo, come una preistoria della conoscenza, inviano impulsi magnetici al cervello e creano relazioni con tutto. In fondo, quando Alice cade nel pozzo non fa forse cadere il pozzo dentro di sé? Non crea una interazione? Il fatto che cada nel pozzo e non altrove, non è già di per sé la presa di coscienza di un significato profondo, un segnale che muta la sua idea di mondo? 

Foto di Federica Guaiana.

In qualunque angolo del sapere vi sono viscere, pozzi di infima conoscenza, dove è necessario cadere per dilatare l’abituale sentimento delle cose. Esistiamo in dipendenza a qualcosa di altro che è già dentro di noi: lì, allo Sferisterio, lo abbiamo sperimentato quando con gli esercizi, in un lampo, abbiamo percepito la presenza di forme nuove messe in moto dall’immaginazione. Tutto viveva in un interno, restando sempre nel medesimo posto esterno. Il Muro era anche dentro, non solo fuori.

Con gli esercizi, giorno dopo giorno, avevamo attraversato un buco circolare come una palla e, allo stesso tempo, profondo. Avevamo oltrepassato quei buchi passando tra un corpo. Sintesi della sovrapposizione tra gli adolescenti e il Muro. Un buco necessario per entrare in un altro mondo di percezione. In fondo, tra il gioco della palla e la morte dei giovani partigiani, lì, allo Sferisterio della Rocca, non cercavamo altro che un passaggio. Per questo un giorno un Viandante portò con sé un’idea di cammino: passò, ma andò oltre, incidendo un percorso. Un’altra volta giunse un Araldo portando con sé parole scritte a mano su un foglio: chiese aiuto alla voce, a un suono che doveva uscire dalla voragine del nostro corpo. La bocca divenne un altro buco sulla soglia di un pozzo profondo.

Foto di Nicolò Gialain.

Attraverso esercizi la SG propone un’idea di rappresentazione che non separa gli elementi tra di loro. Il suo fuoco è il montaggio di frammenti: un duro lavoro di composizione mediante complesse strutture di interazione tra mille variabili che per armonizzarsi tra loro devono cambiare continuamente la grammatica della relazione, la preposizione. Un continuo moto di punti di osservazione in uno spazio fisso che diventa un posto. La SG lo sceglie, e poi, dopo alcuni incontri, lo abbandona per andare a cercarne un altro. Lo sceglie per quello che è. Non gli dice come deve essere, lo lascia così com’è. Vuole mettere alla prova la forza dell’interazione solo per sperimentare cosa significa composizione. Un altro modo di vedere il mondo, come quando, nella favola, l’eroe disorientato riesce a ritornare a casa grazie a una trama di relazioni: con la casa stessa, gli animali, la strega, il pane, il bosco…

Allo Sferisterio, un Muro invita gli adolescenti a prendere coscienza della sovrapposizione come composizione di forme: una struttura esilissima che deve affiorare da sé. Come un seme. In attesa di crescere. Un incessante lavoro di trasformazione nel soppesato ritmo del compiersi di una forma complessa, che continuamente non può che promettere, a un adolescente, un sollevamento.

Andy Warhol, Car Crash (Series) Orange, Silver, Green, 1963.

*Il nome Scuola Grande nasce per ispirazione, dopo aver visitato a Venezia la Scuola Grande di San Rocco, una delle tante scuole che dal XIII secolo nacquero a Venezia per garantire la sicurezza e il benessere dei cittadini, anche stranieri e specialmente dei lavoratori. La scuola di San Rocco (la cui protezione veniva invocata nelle epidemie), benché avesse, come le altre scuole, lo scopo di aumentare il prestigio dei ricchi confratelli presso gli strati più alti della società veneziana, legò opere di beneficenza e di assistenza all’opera di artisti di rilievo, come Carpaccio, Tintoretto, Jacopo Palma il Giovane, Tiepolo.

[La Scuola Grande si è tenuta allo Sferisterio della Rocca Malatestiana di Cesena nell’agosto 2020, all’interno del Progetto Puro Intervallo, realizzato da Societas con il contributo del Comune di Cesena. Cura: Simona Barducci e Elena de Pascale.]