La scuola si fa a scuola

[di Michele Longo]

Iniziare la scuola senza le mascherine e i boccioni di gel sanificante, ma con i compagni di banco, è bellissimo. Anche per chi non lo sa, come i bambini nuovi di zecca che ho appena iniziato a conoscere. Ma questo è anche l’anno in cui scopriremo, un po’ alla volta, i rottami e le scorie di due anni e mezzo di scuola col covid. Ci sono oggetti ingombrantissimi, con cui tutte le scuole iniziano a fare i conti, e detriti impigliati nelle routine delle classi o cristallizzati nelle mente degli insegnanti. Il primo degli oggetti ingombranti è lo smart working. Mentre la didattica online è finita per decisione netta del ministero (amen!), la possibilità di continuare a fare a distanza il lavoro senza studenti, come le riunioni, le ore di programmazione didattica alla primaria, i consigli di classe, i colloqui con i genitori e gli specialisti, è rimasta aperta, anche se in modo un po’ vago, e, come sempre, lasciato alla decisione dei singoli istituti. Cioè del dirigente scolastico. Da quello che leggo, e che osservo direttamente nella mia scuola, la grande maggioranza degli insegnanti è decisamente favorevole a mantenere questa porzione di smart working. A me sembra sconcertante. Ora, lo so anch’io che le riunioni collegiali sono noiosissime e sempre più inutili, quindi ben venga la possibilità di farle a casa mentre si gira il ragù, si bada ai figli, si legge Turgeniev.

"Avete proprio deciso di scomparire, voialtri..." (foto Michele Longo).

Provo a ignorare Piccola Cassandra che, da dietro il vetro di sicurezza della sua stanza morbida, scandisce col labiale: “Avete proprio deciso di scomparire, voialtri: vediamo un po’ come organizzate una protesta su Zoom.” Che tanto non organizziamo una protesta dal 2010. Qui compare un amarcord, forse telepaticamente inviato da Piccola Cassandra, una che non molla mai, anche perché, detto fra noi, non ha una vita. Nel 2010, appunto, nel fermento della protesta contro la 'riforma' Gelmini, in un padiglione della scuola Trotter di Milano, forse in un’ora di programmazione, forse in un fuori servizio tardo meridiano semplice, con una collega ci davamo da fare con vernice e pennelli intorno a un lenzuolo, da trasformare in striscione con lo slogan: “Vogliamo la scuola di lusso!”. Pochi giorni prima il ministro delle finanze Tremonti aveva dichiarato: “La scuola pubblica di qualità è un lusso che non ci possiamo permettere”. Entra il preside Francesco Cappelli, che mi piace ricordare qui, sobbalziamo dando giù un dripping involontario, si guarda intorno divertito e fa: “Ma questa è la fabbrica della sedizione!” Sembrano passati trecentocinquant’anni. Adesso, noi, per chiedere la scuola di qualità, o uno stipendio decente, firmiamo petizioni online. Il che…

In realtà, tanto per rimanere sempre nel mio piccolo, quello che proprio mi sembra sbagliato, è, per noi maestre, mettere le due ore settimanali di programmazione didattica nel calderone “riunioni collegiali”, e via, tutte a casa su Meet, su Zoom, su Netflix. La programmazione non è una riunione collegiale, e si può fare decentemente solo in presenza. In carnale presenza in un luogo fisico coi caloriferi spenti, dove si può far vedere alla collega parallela un quaderno, un libro, una tecnica di action painting, dove, quando non c’è più niente da dirsi, si può andare nella propria aula a mettere in ordine l’armadio, che è uno dei pochi momenti buoni per pensare, dove si può salire al piano di sopra e sentire cosa ne dicono quelle delle quinte, dove si possono collegare nomi e facce delle colleghe nuove, e magari scambiarci due parole, dove si può dedicare del tempo non rubato a sfogarsi con la collega di classe perché con Gigino non ce la fai proprio più, dove si può andare nell’aula soffitta a ravanare tra materiale didattico vintage e storico; un luogo fisico freddo e male illuminato da cui, non si potrebbe, ma si esce a volte, facendosi largo tra la calca dei genitori, per andare con qualcuno a prendere il caffè che stacca dal pomeriggio con le Creature.

 Adesso, noi, per chiedere la scuola di qualità, o uno stipendio decente, firmiamo petizioni online.  (foto Michele Longo).

In fondo, la dimostrazione del fatto che la programmazione didattica da casa non si può fare, è il lavorio di chi la vuole per inventarsi ragioni che coprano il “per me è più comodo”. Tra l’altro, due ore di programmazione didattica settimanali incluse nell’orario di lavoro le abbiamo solo noi maestre della primaria. Cassandra srotola contro il vetro un lenzuolo di teleria finissima con scritto: “Un lusso!”. Lei esagera, per vocazione. Eppure. Di tutte quelle ore in cui ci occupiamo di scuola dopo la campanella, in sogno e da sveglie, due sono riconosciute e retribuite. Mi sembra che questo abbia un’importanza anche solo simbolica, come argine all’immaginario insano della missione e della dedizione che, non a caso, viene rispolverato ogni volta che alla scuola si tolgono risorse. Cioè, sempre.

Cassandra o no, online o offline, sempre mi secca quando noi insegnanti facciamo qualcosa per dimostrare di essere proprio come ci descrivono; il culdipiombismo dei docenti, come scriveva il perfido e amatissimo Giuseppe Pontremoli. Ma non è nemmeno questo, non solo. È un po’ triste, ancora una volta, la sensazione che stiamo passando attraverso un cambiamento storico dell’istituzione che abitiamo, e che ci abita, senza farci caso. Forse vorrei solo qualcuno, una collega, a dimostrarmi che ho torto.

PS. Cose che forse va bene continuare online, secondo Piccola Cassandra:

1) I colloqui con i genitori, perché è più spiccia, e perché è immensamente più comodo per loro, soprattutto per chi ha lavori di merda.

2) I colloqui con gli specialisti delle varie équipe medico-psico-pedagogiche, perché in epoca pre-covid bisognava buttarsi e ributtarsi in ginocchio con la supplica di essere ricevuti, mentre su Zoom ti danno l’appuntamento in una settimana.

...stiamo passando attraverso un cambiamento storico dell’istituzione che abitiamo, e che ci abita, senza farci caso.  (foto Michele Longo).