Per un editore forse la notizia delle notizie è scoprire all'improvviso di avere in catalogo un Nobel. Ci è accaduto ieri, quando abbiamo appreso che il Nobel per la Letteratura 2018 (non assegnato lo scorso anno per via di uno scandalo in cui era convolta l'Accademia di Svezia) è Olga Tokarczuk, ovvero l'autrice del racconto illustrato magnificamente da Joanna Concejo, L'anima smarrita. Nel 2017 abbiamo acquisito i diritti di questo libro dalla casa editrice polacca Format. L'albo ci è stato proposto da Joanna che noi, come facciamo con molti altri nostri autori, seguiamo anche quando pubblica con altri editori stranieri, come in questo caso. Quando ci arrivò il testo di questo libro e lo leggemmo, decidemmo subito che si doveva proprio fare e non solo per il meraviglioso lavoro visivo che Joanna aveva costruito intorno alla storia. Cosa dire? Che siamo contenti? Non solo, siamo ancora stupefatti. Ma a volte queste cose capitano. Oggi festeggiamo Olga Tokarczuk a cui vanno tutti i nostri più vivi complimenti, proponendovi la lettura che di L'anima smarrita ha dato Silvia Vecchini nel suo saggio appena uscito Una frescura al centro del petto. L'albo illustrato nella crescita e nella vita interiore dei bambini.
Forse “stare bene” è mantenere un autentico contatto con la nostra parte più segreta, con l’infanzia che rimane.
Che cosa può succedere se queste due realtà [ la dimensione infantile e la dimensione adulta ndr] non si incontrano, non entrano più in relazione, ce lo racconta un altro albo intitolato L’anima smarrita di Olga Tokarczuk. L’oggetto in sé, già con le sue caratteristiche editoriali, comunica il suo essere speciale e rimanda a una dimensione sfuggente. Il titolo è impresso come un’impronta in copertina. Viene voglia di passarci sopra il dito per vedere se c’è davvero o è un’illusione. All’interno del libro sono presenti alcune pagine in carta da lucido con disegni a matita. Ancora una volta un dato che segnala qualcosa di fragile o fuggevole, che potrebbe svanire.
La storia, anche qui, è molto semplice, ma apre a moltissime domande. Dalla pagina iniziale sappiamo che un uomo che lavora molto, prigioniero del tempo e dei viaggi, si è lasciato alle spalle la propria anima. Un giorno non si riconosce più. Non sa più chi è. Una dottoressa saggia gli consiglia di fermarsi e aspettare che ritorni la sua anima. L’uomo segue il consiglio, si trova una casa tranquilla, butta valigia e orologio, si siede e aspetta.
Da questo momento in poi le immagini straordinarie di Joanna Concejo prendono tutto lo spazio della narrazione. Non c’è molto altro, infatti, da aggiungere, la storia è tutta nella pagina di apertura. Il resto è il racconto dell’attesa. Vediamo l’uomo seduto a guardare fuori dalla finestra e attendiamo con lui non si sa bene cosa.
Che forma ha l’anima che ritorna? Trascurata, abbandonata, forse rifiutata per anni, con quali sembianze può tornare? Con quali intenzioni? L’uomo dovrebbe forse temerla?
Un brevissimo testo appare. Eccola, l’anima. Arriva. È stanca, sporca, piena di graffi. Ma il suo aspetto è quello di una bambina che dice: «Finalmente!». È felice di tornare, sollevata.
Non è un volto qualsiasi. Se torniamo indietro, nelle pagine che precedono l’inizio stesso della storia come un vero e proprio preambolo (prima del frontespizio), riconosciamo la bambina su una panchina accanto a un bambino, probabilmente quello che crescendo ha perduto la sua anima. Ebbene, l’anima che torna ha il volto di questa bambina. Forse un’amica, pensiamo.
Ma perché l’anima dell’uomo dovrebbe avere le fattezze di una bambina?
Se guardiamo bene, i due bambini stanno parlando e condividono lo stesso paio di guanti tenuti insieme da un filo. Tanti guanti per bambini vengono confezionati così perché non si perdano. Allora, forse quella non è soltanto un’amica d’infanzia, ma l’anima stessa del bambino. L’anima smarrita. Qualcosa che quando torna può, sì, portare i segni della sofferenza, della prova, della lontananza, ma nel tempo non invecchia perché è la sostanza dell’infanzia e del suo mistero. Ci chiede di andare più lenti perché il suo passo è un passo da bambini. Ci chiede di non perderla tra la folla perché è difficile tornare a casa. Ma come con le fate formiche che conservano l’anello, lei ha conservato il guanto, l’ingresso magico a se stessi in questa storia. Dopo che l’incontro tra l’uomo e la sua anima è avvenuto, dopo il ricongiungimento, troviamo i guanti insieme nelle ultime pagine del libro, prima sul tavolo e poi appesi fuori.
Anche in questa storia, si è “felici e contenti” (così il finale del libro) quando questa unità profonda data in partenza è ritrovata, riconquistata. Si può fiorire ed essere rigogliosi (le ultime pagine sono un’esplosione di verdi, di germogli, di foglie, di piante e frutti dopo la neve) solo se uniti alla propria radice.
Non stupisca troppo trovare il tema dell’anima smarrita in un albo illustrato destinato anche ai più piccoli. Nell’infanzia si può accendere un improvviso interesse per l’argomento anche nei bambini che manifestano meno dimestichezza con i temi spirituali. Basti pensare al celebre episodio dei Simpson intitolato Bart Sells His Soul. L’episodio è il quarto della settima stagione. Bart, che non crede nell’anima, decide di vendere all’amico la sua, sotto forma di un biglietto con su scritto “anima di Bart”, per cinque dollari. Quando Bart si accorge dell’errore e delle perdite che comporta (i suoi animali domestici lo rifiutano, le porte automatiche non si aprono più al suo passaggio, la mamma nota che qualcosa manca al suo abbraccio, lui stesso non riesce più a ridere…), cerca in ogni modo di riappropriarsi del pezzo di carta. Dopo diverse peripezie è Lisa che lo aiuta a ritrovare il biglietto tanto importante. Nel riconsegnarglielo, espone la teoria filosofica secondo cui l’anima non nasce con noi, ma occorre guadagnarsela soffrendo, meditando e pregando proprio come ha fatto Bart per tutta la puntata. Intanto il bambino, senza aver ascoltato nulla, ha ben pensato di mangiarsi il biglietto per non perderla più. A un certo punto dell'episodio, quando ormai il danno è fatto e le cose si mettono male, Bart in sogno vede tutti i suoi amici giocare con un doppio, la loro anima appunto. E quando si tratta di attraversare uno specchio d’acqua per dirigersi verso un’isola luminosa (l’aldilà, il paradiso, in ogni caso una dimensione di felicità disponibile per tutti), Bart si trova a remare da solo. Mentre tutti si dirigono spediti verso l’isola, lui gira in tondo senza riuscire ad avanzare. Poi si sveglia da questo brutto sogno urlando.
All’isola si accede solo in coppia con la propria anima, da soli il viaggio è destinato a ripetersi in un giro sempre uguale o come l’uomo dell’albo illustrato, dopo tanto viaggiare non si sa più dove ci si trovi, si dimentica il proprio nome, ci si guarda allo specchio vedendo solo una macchia indistinta “come se dentro il corpo non ci fosse più nessuno”. Come nell’episodio dei Simpson (non a caso tra i più apprezzati dalla critica e utilizzato nell’educazione religiosa per spiegare la natura dell’anima), è questo il passaggio più inquietante e spaventoso del racconto. Ma niente paura. Il testo dell’albo, che inizia con “Una volta c’era …”, richiamando la formula magica del “C’era una volta”, si chiude appunto con “felici e contenti”. Ecco la chiave del testo scritto da Olga Tokarczuk: L’anima smarrita è la fiaba moderna di ciò che può capitare a ogni uomo. Il terribile rischio di perdere la propria anima c’è, esiste. Ma esiste anche un rimedio, una riparazione. Ricordo un bellissimo articolo di Giovanna Zoboli, Accarezzare l'invisibile, apparso su Doppiozero, dedicato proprio ai guanti perduti dai bambini. Terminava con questa frase:
Ai bambini piace sapere che alle cose ci può essere rimedio, e bisognerebbe sempre cercare di essere all'altezza della loro fiducia e dell᾿inimmaginabile. Con loro, perciò, sarebbe utile fare come se si avessero tre mani: una libera, sempre pronta a indossare guanti spaiati, a trovare cose perse e a riparare l᾿irreparabile. Un po᾿ come dice John Giallo in I pensieri dell᾿invisibile (Pulcinoelefante, 2011): «Che bello sarebbe vivere con tre mani; una potrebbe accarezzare ciò che non esiste».
Queste considerazioni mi sembrano molto vicine al cuore della storia de L’anima smarrita. L’illustratrice ha pensato di introdurre due guanti, un particolare visivo che nelle parole non è detto, per segnalare le cose che rischiano di essere perse, di diventare spaiate per sempre, ma anche per dirci che una cosa invisibile non è detto che non esista. Anche alla perdita dell’anima, al suo smarrimento si può, si deve poter rimediare. Il lieto fine chiude il cerchio del linguaggio fiabesco che attraversa lievemente l’albo (la rottura dell’equilibrio, la mancanza, il viaggio, l’aiutante…) e porta allo sposalizio dell’eroe non con una principessa, ma con la propria anima.