Le cose che passano. Un'intervista a Beatrice Alemagna

Oggi vi presentiamo la quinta novità dell'autunno. È l'atteso Le cose che passano di Beatrice Alemagna. Lo facciamo insieme a lei attraverso le domande che Giovanna Zoboli le ha fatto e a cui lei ha risposto, cosa per cui la ringraziamo.

G.Z. La prima cosa che noto sfogliando Le cose che passano è un elemento molto forte che è comune a tutti i tuoi libri: un’idea di base semplicissima intorno a cui è costruita una grande complessità. Il testo tiene dritta la barra e punta alla massima chiarezza; le immagini sono vaste e profonde come un mare, hanno la funzione di rompere l’ordine costituito, trasgredirlo, movimentarlo.

B. A. Bella questa frase delle immagini vaste e profonde. È un criterio necessario, per le immagini: trasmettere cose su più livelli, parlare diverse lingue, poter trasportare come le onde del mare. Ci sono immagini che alle volte mi trasportano così, lasciandomi in balìa delle correnti. Mi pare un complimento eccezionale.

G.Z. La seconda cosa che ho notato è questa: pur sempre riconoscibilissima, a ogni libro sembra che tu voglia reinventare il tuo linguaggio, sperimentarlo in altre direzioni. L’impressione qui è che la tecnica che hai usato sia stata utilizzata come strumento per una ricerca di imperfezione.

B. A. È vero. Volevo qualcosa di diverso, per questo libro. Un'atmosfera effimera, volatile e impalpabile. Volevo perdere il segno, fare scomparire le linee dure, le luci. Arrivare a immagini piatte, primarie, scarne, indefinite ma anche pittoriche e affettive. Non sono una grande amante della corrente grafico-essenziale che va tanto di moda ultimamente. Resto attratta dalla corposità, dal calore che emanano le textures, le materie. Mi interessava avanzare su questa estetica ruvida e materiale ma anche semplice e immediata.

Disegni preparatori e ricerca.

G.Z. È sempre interessante come nei tuoi libri convivano registri diversi che passano dall’uno all’altro con naturalezza. Dall’umorismo alla tenerezza, dal lirismo alla prosaicità, dalla malinconia alla comicità.

B. A. Sono per il mélange des genres! Mi appassiono alle storie che non hanno un'impronta precisa. Mi spiazzano e credo che essere disorientati sia una cosa molto importante: corrisponde ad attraversare l'inconsueto, il nuovo. Anche nel cinema apprezzo molto i film che prendono direzioni inaspettate. Il cinema coreano, ad esempio, passa dall'horror al riso, con picchi di drammaticità. Forse c'è un po' di questa voglia, quando penso ad un testo.

«Le foglie cadono / come a volte i capelli.»

G.Z. Leo Lionni in uno scritto famoso su come nascono le idee scrive che alla base di ogni libro c’è una cellula madre ideativa che può arrivare nei modi più diversi. L’uso della carta da lucido ti ha consentito di mettere in scena il passaggio del tempo. È stata questa l’idea che ti ha suggerito il tema delle cose che passano?

B. A. Inizialmente volevo creare una sorta d'abecedario. Un immaginario delle cose che vanno via. Poi mi sono accorta che nel profondo, detesto tutto quello che racconta tramite l'alfabeto, le liste o i numeri. Per prima cosa, mi riportano immediatamente sui banchi scolastici che io non ho mai amato, ma poi è come se questa cosa del seguire le lettere diventasse in realtà una gabbia creativa più che un punto d'interesse per il bambino. Ho così pensato di procedere al contrario. Di pensare non a un catalogo di immagini (che ha una nozione intrinseca di fissità), ma di trovare come invece far scomparire le cose di cui volevo parlare. Posso dirti che mi sono davvero scervellata. Finché a un certo punto, la gabbia creativa è diventata proprio il foglio trasparente e il modo che dovevo trovare per fare passare il disegno da una pagina all'altra, il suo ribaltamento speculare, l'obbligo di restare su un punto fisso ma di scomparire sull'altra pagina. Una grande difficoltà, per me che amo tanto la libertà. Stavo abbandonando, che disdetta. Poi, però, mi sono resa conto che, incredibilmente, proprio nel movimento di questo foglio di carta da lucido, nel suo far passare le cose da una parte all'altra, stava esattamente racchiuso il senso tutto del mio libro, e che il foglio trasparente simboleggiava esattamente il movimento di crescita del bambino, il passaggio di tempo. Nel senso fisico. Questo mi ha fatto perseverare e insistere. Non c'è niente di più importante, secondo me, quando si crea per i bambini, di sentire di essere nel giusto. Bisogna essere cocciuti, per fare questo lavoro.

Dalla progettazione al libro.

G.Z. Come trovi di solito le idee per i tuoi libri, sono intuizioni visive o verbali?

B. A. Questa in particolare partiva da un'intuizione intima, un desiderio profondo che volevo raccontare, un po' come con Che cos'è un bambino?. D'altronde, volevo aggiungere che sono felice che questi due libri possano riunirsi sotto al tetto della vostra casa editrice. Sono due libri fratelli: devono stare vicini.

G.Z. Nelle tue illustrazioni i personaggi sono un’umanità varia di cui fanno parte uomini e donne, giovani, bambini, anziani. Ma anche piante, animali, cose, case, spazi hanno la dignità di personaggi. È un mondo dove tutta la materia appare animata, attraversata dalla medesima corrente vitale.

B. A. Questo io non riesco a vederlo. So che lo faccio con una grande vitalità e passione. Forse è questa energia vitale di base, che traspare.

La paura.

G.Z. Pensi che il tema del tempo sia interessante per un bambino?

B. A. Non so se il tema del tempo è interessante per un bambino. Non so nemmeno se si debba davvero parlare di "tema del tempo", per Le cose che passano. Ignoro come i bambini recepiranno questo libro. C'è un po' di filosofia, dentro, molta umanità, c'è un mondo che sfugge e che non è sempre facile, ma ci sono anche il riso, la leggerezza, la sorpresa. C'è soprattutto e infine l'evidenza senza sdolcinatezza. L'unica cosa importante davvero. Per me, sin dall'inizio, era importante dire questo.