Scintille che creano mondi

Mentre al Festival Tuttestorie di Cagliari, Elena Iodice si preparara a fare meraviglie, come da tradizione, noi qui vi proponiamo un sua esperienza che vale la pena di conoscere e che di certo interesserà a tutti coloro che si interessano di didattica dell'arte, poesia, libri e bambini.

[di Elena Iodice]

Quante storie si celano dentro un albo illustrato? Quanti percorsi si aprono, nascosti dalla boscaglia delle parole, a lato del sentiero principale, quello segnato che procede dritto dritto, copertina, risguardo, occhiello, frontespizio, pagina e pagina e taglio e fine? La mia anima, di natura errabonda, mi impedisce di restare sul sentiero segnato: c’è sempre una parola che mi fa deviare, un’immagine che mi cattura e che mi spinge a vedere cosa ci sia al di là, in quello scorcio che improvvisamente mi si è aperto. So di potermi perdere, come Cappuccetto, ma non riesco a eludere quel richiamo che mi porta fuori pista.

È quello che mi è successo lo scorso anno mentre mi trovavo a dipanare i pensieri per mettere in piedi il progetto che mi avrebbe accompagnato per i nove mesi successivi. Vagavo, ancora un po’ confusa, tra alcuni stimoli che avevo messo da parte durante i viaggi artistici compiuti nel periodo più duro della pandemia (quello del lockdown totale, per intenderci) quando mi è tornato in mente un libro. È stato un attimo, una scintilla: era un’idea piuttosto scollegata dal resto ma ho sentito che dovevo seguirla.

C’era una voce di Alessandra Berardi Arrigoni e Alessandro Gottardo era lì, nella libreria degli albi da moltissimo tempo. Lo avevo comprato per Beniamino, mio figlio, quando ancora mi chiedeva di leggergli qualcosa, seduti sul divano. Avevo poi incontrato Alessandra al Festival Tuttestorie e C’era una voce aveva avuto il potere di creare uno di quei rari, preziosi, veri momenti di incontro anche nella euforica confusione del festival. Insomma, avevo la sensazione che, in modo silenzioso e discreto, accompagnasse la mia vita e le sue tortuose piroette.

È stato li, in quel momento, che mi si è aperto lo squarcio: all’inizio era solo un accenno di sentiero, un diradarsi del bosco, una pietra a segnalare. Poi, man mano che proseguivo nella lettura, ecco che quella traccia confusa si è fatta carrettiera e poi, sentiero nitidissimo.

«All’inizio c’era una voce. E Dio, solo.»

Prima di tante volte


prima di tanti volti


prima che faccia tardi


prima che tu mi ascolti


prima dei primi sardi


e dei babilonesi…


prima! Sì, prima-prima.


Di anni, giorni, e mesi…


di semine e raccolte…


prima di tutto! Intanto


- questo lo credo io -


prima c’era soltanto…


c’era il cuore di Dio.

Io me lo immagino, quel Dio a cui Alessandra dà voce e che Alessandro fa percepire (non vedere) dietro al mondo che, pagina dopo pagina, prende forma nelle sue tavole; non sapendo bene cosa fare, per noia o per capriccio, si mette a creare. Forma monti, valli, colline; scava solchi, riempie del proprio sudore fossi e profondità, mette al mondo il mondo e con questo la vita.

Ma tutto quel daffare, quella bellezza che crea dal nulla, non riesce a saziare la sua solitudine: ha fame, sete, nostalgia, dice il testo. La voce che lancia in quel mondo appena creato risuona vuota. Nessuna delle sue creature gli risponde. Ci prova ancora, quel Dio dal cuore triste, non si dà per vinto. Plasma l’uomo e gli trasmette qualcosa che ha conservato gelosamente fino a quel momento: un soffio del suo alito creatore. Solo questo rende capace quel fantoccio armonioso di rispondere alla voce, componendo con la sua balbettante risposta, una rima.

Ma ecco che, a me, indomita percorritrice di sentieri impervi, improvvisamente, si apre un altro squarcio, un sentiero nel sentiero. Impossibile non seguirlo.

La storia di Alessandra ne richiama un’altra, manco a dirlo di Maria Lai.

In questo caso il Dio è un Dio distratto, sceso sulla terra sotto forma di uomo per aiutare le sue creature a tornare a sognare: un giorno, mentre schiaccia un pisolino, per scacciare uno sciame di api che lo disturba, si fa scappare una scintilla di potere divino dalle mani. Quella scintilla impertinente, sfuggita, liberata, crea indipendentemente dal Dio a cui originariamente apparteneva. È una creazione autonoma, folle, irrispettosa dell’ordine prestabilito, dei ruoli e delle convenzioni.

Il Dio distratto (Maria Lai).

Da quella scintilla, il mondo si capovolge, viene ricreato. Non basta più trasportare pietre, costruire, affannarsi, non sazia più, ancora una volta: anche gli uomini, impegnati nei lavori più duri, avvertono l’esigenza di una nuova creazione. Come il Dio della poesia di C’era una voce, sentono fame, sete e nostalgia di qualcosa che intuiscono ma a cui non sanno dare un nome. Maria Lai continua così: incaricano un uomo, il poeta, di trascrivere le parole, i canti, le fiabe. A lui il compito di restare nella Vita, semplicemente, ed ascoltare. Non produce, il poeta, non costruisce, non fa altro che rimirare il cielo. Ma è solo grazie a lui che gli uomini ricominciano a sognare e a desiderare l’infinito.

Il sentiero mi ha portato sul bordo di un precipizio. Ma non fa paura, non mi spinge a tornare indietro. Da lì l’infinito a cui allude Maria si fa visibile come quando, dopo tanto faticare, si giunge in cima ad una montagna. Lo si lascia entrare l’infinito e lo si lascia lavorare.

Ecco che allora il progetto comincia a prendere forma.

Parlerò, parleremo di quelle scintille che creano, che liberano, che formano mondi. Parleremo della fame e della sete e della nostalgia che spinge l’uomo a tentare di trovare una risposta, con pennelli, crete, pastelli, stoffe a quell’anelito profondo. Parleremo di ciò che muove l’Arte, di quella risposta che ogni artista ricerca per fare di due voci una rima. Parleremo dei mondi che essa crea e che aprono al mistero di quell’altro mondo, il Grande mondo lo avrebbe chiamato Maria, che solo a tratti ci si svela.

Entro in classe, il primo giorno. Leggo l’albo di Alessandra e poi, immediatamente dopo, quello di Maria Lai. Alla lavagna scriviamo le parole importanti, quelle che ci restano addosso dopo la lettura. E tra queste c’è “scintilla”.

Il primo giorno di scuola.

“Tutti noi abbiamo una scintilla scappata dalla mano di Dio”. Questi bambini sono appena tornati sui banchi dopo mesi di assenza eppure non servono grandi preamboli. Loro al precipizio ci sono arrivati diretti.

“Ok, ma allora chi è l’artista?”, li provoco io.

“È quello che ha la scintilla più grande”, risponde uno.

“No, è quello che la vede meglio!”, gli fa eco un altro.

Comincia così il progetto C’era una voce. Dalle scintille che i bambini sanno perfettamente maneggiare, senza paura del precipizio.

Astri pianeti e lune

lanciati con le mani

come biglie per gioco

nel sistema solare

più svelti a poco a poco

presero a roteare.

C’era una volta un pittore marchigiano, Osvaldo Licini si chiamava, che dipingeva Amalassunte. Cosa sono le Amalassunte? Scrisse, Osvaldo, per chiarire i dubbi: «Se qualche anima curiosa dovesse rivolgersi proprio a Lei, critico d’arte senza macchia e senza paura, per sapere chi è questa misteriosa ‘Amalassunta’ di cui tanto ancora non si parla, risponda pure, a mio nome, senza ombra di dubbio, sorridendo, che Amalassunta è la luna nostra bella, garantita d’argento per l’eternità, personificata in poche parole, amica di ogni cuore un poco stanco».

Lune sornione, giocose, irriverenti, femminili si stagliano nei cieli di Licini. E allora immaginiamo che il mondo che Dio immagina per mettere in scena le sue creature sia un teatro; le sue quinte si aprono e, su un fondo dipinto a pastelli a olio, compaiano loro, le Amalassunte che, seguendo le indicazioni di Alessandra, a poco a poco roteando, giocano come biglie in un cielo infinito.

Impaziente e giocondo


prese un mucchio di creta:


mettere al mondo il mondo,


era questa la meta...!

Tullio Pericoli, anche lui pittore marchigiano, ma vivente (“Ma come, è vivo?!”, mi chiedono i bambini stupiti), guarda le sue colline e le rughe che il tempo ha formato e le riproduce sulle sue tele, incidendo, graffiando, punteggiando la materia fino a rendere visibile quel passaggio del tempo. Come il Dio di Alessandra, Pericoli dà forma al mondo.

«Parliamo di rughe per il volto» scrive Pericoli «e di rughe per il paesaggio; sia per il volto che per il paesaggio possiamo parlare di stagioni, depressioni, tagli, scavi, cedimenti... Quando guardo un paesaggio mi viene spontaneo chiedermi perché lì c’è quella ruga, quella collina, quella forma di montagna; quale spinta le abbia fatte emergere, nel modo in cui sono emerse. Esattamente come faccio con un volto».

Allora si comincia a lavorare su foto delle colline marchigiane, alcune di Mario Giacomelli, il fotografo che compie una ricerca parallela a quella di Pericoli. Si tracciano le linee. Si individuano le forze, si misura la potenza del segno, si percorrono i fossati, gli avvallamenti. E poi la creta da incidere, lavorare, punteggiare, solcare. Restano pezzi del giornale con cui avevamo protetto i banchi sulla superficie umida, ma li lasciamo lì, come ulteriori tracce del lavorìo del tempo.

E poi, coi polpastrelli,


si divertì a scavare
i fossi delle valli,


gli abissi per il mare...


Col pollice e con l’indice


fece il fango più fine:


formò, disfò, rifece


vette, monti, colline.

Come Dio impasta il mondo con l’argilla scura, anche Burri creava opere partendo dalla terra. La impastava e poi la lasciava seccare. Voleva che si formassero crepe, fessure, tagli. Orchestrava quel lavoro perché micca doveva essere a caso. E la terra si ritirava, si asciugava formava una ragnatela di segni come quelli che si vedono nei campi quando non piove da un po’. Gli chiedevano spesso cosa significassero i suoi quadri. Ma lui rispondeva, seccato, che ciò che solo gli interessava era la materia a cui poter dare forma, «la materia e basta».

Arrivo in classe con uno scatolone di segatura e un barile di colla Vinavil. È così che Burri creava i cellotex. Impastiamo, incuranti del divieto di sporcare, intasiamo pure uno scarico. Ma eccoli i cellotex prendere forma. E, se chiudiamo gli occhi, eccoli diventare mondi visti dallo spazio, terre rosse, foreste immense, colline dolcissime, profonde notti nere. Tra tutti i bambini c’è S. Sono abituata alle sue uscite che mi catapultano in aria. La sera del laboratorio torno a casa e mi arriva un vocale. È la sua mamma. S è tornato a casa parlando dei cellotex, improvvisamente entrati nella sua vita.

Mamma: ‟Cos'è un cellotex?”

S: ‟Un cellotex è un materiale fatto da segatura, legno, colla e acqua”

Mamma: ‟Ma cosa rappresentano?” (questo nell'audio non c'era ma ho supposto possibile una domanda del genere)

S: ‟Le opere di Burri rappresentano... niente in teoria, però, tipo, non è che sembra un gatto, un pesce, un cavallo, un bimbo, un adulto o altre cose, lui... sono disegni che... parlano.”

E la materia viva

- dai mammuth ai batteri-

si sparse su ogni riva:

esseri grandi e fieri

o piccole creature

andarono, dal mare,

al monte, alla foresta…

Allora Dio, lui pure,

poggiò a terra la testa.

Sembrava riposare.

Mi sembra di vederlo, Carlo Mattioli, raffinatissimo pittore parmense, intento a far nascere alberi su muri dimenticati. Sono macchie, sbavature, ombre. Ma ricordano le piante di cappero che, indomite, vivono nutrendosi dei sali delle malte. E allora che si lavori anche noi sull’intonaco. Aiutata da Diego, il mio insostituibile amico pittore, preparo tavolette di malta e paglia. I bambini mi guardano stupiti. Niente fogli. Disegniamo sui muri. Ognuno darà forma a un albero con acrilici e gessetti bianchi, confrontandosi coi bozzi, le crepe, le asperità dell’intonaco di base. E poi acqua sporca di china a colare, a scendere verso il basso “perché l’acqua non può stare ferma, lei è viva”. «Non c’è niente di più misterioso del visibile», disse un giorno Morandi parlando di Mattioli.

E questi alberi nati sui muri, queste foreste coraggiose, ci indicano davvero qualcosa di più in là.

E infine Alessandra, dopo aver fatto riposare Dio, porta pace al suo cuore.

In quella zitta quiete

Dio sentì tanta sete,

e fame, e nostalgia...

 

Prese l’argilla scura

e impastò una figura

con viva frenesia.

Nel fango buio e denso

Trovò le esatte forme.

Quindi, per la paura

Di svegliare chi dorme,

trattenne il fiato – penso-

fermando l’andatura

dell’universo immenso.

 

Guarda la sua creatura:

amabile armonioso

fantoccio silenzioso.

Soffiandogli sul viso

Sussurra: «Figlio mio...»

Lui apre occhi e sorriso

«Sei mamma... babbo... Dio?»

I rimandi iniziali tornano in chiusura del testo. Se la storia a cui Alessandra ha dato voce mi aveva portato a Il Dio distratto, è ancora Maria Lai a suggerirmi come finire il percorso con i bambini stupendi e profondissimi di una prima elementare.

«Amo il presepe come esperienza di qualcosa che, più ne indago l’inesprimibile, più trovo verità, più divento infantile e ingenua, e più rinasco.

Amo il presepe perché, come l’arte, è il vasto respiro di un viaggio.

Amo il presepe perché, come l’arte, dialoga con l’infinito.

Amo il presepe perché, nell’oscurità della notte, si fa grembo, rifugio.

Amo il presepio perché nello spazio di un tabernacolo contiene angeli e stelle, greggi e pastori, tragedie e profezie.»

Ricamiamo, coi bambini, i cieli che faranno da sfondo ai nostri amabili, armoniosi fantocci silenziosi. «Sono mappe impossibili, atlanti fantasiosi, percorsi che si perdono all'infinito» disse Maria. Il filo si annoda, si contorce, si incastra ma non importa: “non è che va sempre tutto dritto” dice qualcuno. E poi apriamo il grande panetto di creta: impastiamo le figure, sbozzate, astratte cercando, come quel Dio della storia, le esatte forme. Le mani servono da stampo, le dita producono cavità. Quasi nessuno aggiunge gambe, braccia o altre forme riconoscibili. Hanno capito, quei bambini di 6 anni, che siamo in un territorio altro rispetto al visibile cui siamo abituati, siamo entrati nel Grande Mondo dove l’invisibile si fa toccare.

La Madonna e San Giuseppe si piegano verso la culla che accoglie un pezzettino di creta modellato come un sasso, tondo, liscio, perfetto. Le pecore e i pastori si tendono verso il centro, stagliandosi sui cieli lontanissimi ma tattili che ricoprono il fondo di quella che, solo poco prima, era una scatola da scarpe.

In chiusura di progetto, rifletto sul percorso fatto per arrivare fino a qui. Non so se tutto questo ci fosse nelle intenzioni di Alessandra. So che accanto a quelle parole, a quella storia che aveva un inizio e una fine proprio come i percorsi segnalati in montagna, io ho intravisto un altrove e mi ci sono lasciata portare. Ed è bello pensare che alla voce del poeta, alla voce di Alessandra, se ne siano aggiunte altre, la mia e quella dei bambini, rispondendole come un’eco. E immagino che la gioia non sia più vuota e il cuore non più triste.

Ancora Maria Lai ricorda che quando Salvatore Cambosu la iniziò all’amore per la poesia, le disse: «“Apri un libro di poesie. Non basta che tu legga una, due volte, tu devi leggere cercando fra una parola e l’altra il ritmo. Non solo il ritmo, questa poesia deve uscire dalla tua bocca e ogni parola, ogni poesia deve diventare tua”. Così ho cominciato a capire lentamente cosa è l’arte, cosa è la poesia. Non importa se non capisci, segui il ritmo.»

Quindi: c’era una voce

- c’era una volta, prima... -

Prima c’era una voce,

poi due voci. E una rima.