Scrivere il proprio tempo sulla lavagna del cielo

La nostra quarta novità è Poesie naturali di Alessandra Berardi Arrigoni e Marina Marcolin, una raccolta poetica che va ad aggiungersi alla nostra collana Parola magica di cui peraltro entrambe le autrici fanno già parte da tempo con C'era una voce, e Poesia della notte, del giorno, di ogni cosa intorno. Qui Alessandra vi racconta la genesi di questo libro. Cogliamo l'occasione per rammentare che il progetto grafico di questo libro è di Anna Martinucci, come quello di molti altri nostri libri e di quasi tutto quello che esce per Topipittori: le sue idee, il suo lavoro, la sua finezza di sguardo e la sua intelligenza sono fondamentali perché ogni libro e con esso il lavoro di autori e illustratori trovi la più adeguata misura ed espressione. Buona lettura!

[di Alessandra Berardi Arrigoni]

Voi non lo sapete, chi è Grazia Deledda. Insomma: certo che lo sapete, ma non potete avere idea di cosa significasse essere una scolaretta nuorese negli anni 1960, e sentirne sempre parlare dalla maestra. Grazia D. era un mito che sfidava spazio e tempo, una donna che era riuscita a fare la scrittrice nonostante i pregiudizi della sua epoca, e aveva vinto il Premio Nobel; in più, era una di noi.

A sei o sette anni non hai una chiara cronologia di decenni, secoli e millenni; e Grazia D. era così leggendaria ed eroica, che io l’avevo collocata ai tempi degli antichi romani: la immaginavo girare per Nuoro con la toga, una ragazza indipendente e decisa, che faceva delle passeggiate per prendere aria, e poi tornava a casa a scrivere, nel quartiere di Santu Predu. Un’antica romana, ma sarda.



E certo più simpatica della signora dei Gracchi, la sacrificale mamma di tutti i mammoni; di Cleopatra, che era bella e potente ma aveva preferito uccidersi perché innamorata di ben due uomini sleali; e di Anita, che aveva voluto seguire quell’esagitato di Garibaldi, fino a morire anche lei nelle imprese di lui, che invece sarebbe vissuto ancora a lungo. Grazia, al contrario, era riuscita a entrare nei libri e a far parlare di sé non a causa di una fine tragica, e non per essere il riverbero di qualcun’altro; lei, nei libri, aveva messo le sue stesse parole. Questa era una grande differenza: questa, era la differenza!

(Fui molto stupita quando, in quinta, la maestra ci radunò per portarci a vedere una mostra fotografica che aveva come oggetto Grazia Deledda: ma come, nell’antica Roma esistevano le macchine fotografiche?!?).

Nel 2005 ho passato qualche settimana d’estate al Monte Ortobene (per noi nuoresi, semplicemente “il Monte”): un’altura bellissima, sotto la quale sorge la meno avvenente nostra cittadina. Querce secolari e graniti imponenti, sentieri di terra umida e muschio che si addentrano in boschi fittissimi; canti di uccelli, impronte di cinghiali, fonti d’acqua fresca; dal lato est della sommità, uno dei paesaggi più belli d’Italia: il massiccio di calcare dolomitico del Monte Corrasi, il cielo puro e azzurrissimo, e terre e campagne a degradare; in fondo, nelle giornate serene, il mare.

Affittando un piccolo alloggio ospitato da una delle poche case della zona, scherzosamente ripensai a Grazia D., che nelle sue passeggiate - così si tramanda - si inerpicava su per la strada del Monte, per trarre la sua ispirazione dal paesaggio e dal silenzio.

Quella insolita vacanza al Monte, me la stavo concedendo proprio per trovare il tempo e l’abbandono per scrivere. Intendiamoci, non ho mai scritto tanto come in quel periodo: un decennio felice di intensa scrittura di filastrocche e canzoni per un programma televisivo per bambini, nuovi monologhi e canzoni per il teatro comico, e recital di storie e canzoni per i piccoli. Ma anche nei periodi in cui il fare lavorativo coincide con la scrittura più amata e gradita, in un angolo dell’anima si annida sempre un’esigenza fortissima di scrivere versi in libertà, senza una precisa finalità applicativa.

Sono nate così le prime composizioni di Poesie naturali (Luna, Sabbia, Albero, Ginepro…): scritte a un tavolino sotto un leccio, accompagnate dal gracchiare di una gazza. Fu un vero sollievo scoprire che potevo ancora abbandonarmi in piena libertà alla scrittura.

Il quadernetto blu su cui avevo annotato i versi, lo portai sempre con me negli anni frenetici e complicati che seguirono: ogni tanto spuntava fuori da sotto al mucchietto di appunti contrassegnato dalla scritta “Da continuare”; e allora lo prendevo, lavoravo a qualche modifica, lo rimettevo via. Dopo un trasloco affrettato e doloroso, il taccuino sparì. Ricostruii le poesie a memoria, scrivendole sul computer, e credo che vennero fuori migliorate.

La vita era sempre piena di scritture, ma per continuare quella non c’era tempo, al momento.

Nel 2014 dovetti ricoverarmi per il morso di un gatto (imprudente me, che mi ero messa a dirimere una lotta fra randagi); volli tornare a casa per affidare i miei tre inquilini felini a qualcuno, prima, e nell’uscire presi con me un quadernetto, pensando che avrei potuto scrivere indisturbata. Quelle quattro giornate passate nel reparto Malattie Infettive, pur tra quaranta flebo di antibiotici misti, si rivelarono meravigliose: tutti pensavano a me e io non dovevo pensare a nulla, neanche a farmi da mangiare. Ero circondata dall’essenzialità d’arredo più pura: non dovevo spolverare quadri e suppellettili prima di mettermi a scrivere… Dunque scrissi, ricominciando dalla poesia Conchiglia. Una volta tornata a casa, scrissi Cielo, Mare, Vento: le poesie più lunghe della raccolta, insomma. Le mandai a mio fratello Enrico, prezioso consigliere nelle mie faccende artistiche, chiedendogli se, a suo parere, quei versi fossero troppo difficili per pensare di destinarli ai bambini. Mi rispose che li trovava molto belli, aggiungendo: «Ma ti ricordi che poesie difficili che ci facevano studiare? Eppure, siamo contenti di averle studiate, ci è rimasto tanto. Continua!»

Continuai. Scrissi anche a Giovanna Zoboli, che mi disse che se ne avessi fatto “un mazzetto”, di quelle poesie, le avrebbe pubblicate. Andai avanti. Solo quindici poesie, si potrebbe dire. Eh, sì. Arriva il momento in cui quella vena è esaurita, e continuare sarebbe voler forzare la mano alla musa: che poi sarei io. Un giorno, dunque, quelle poesie furono ultimate, completate da una dedica a Enrico, e consegnate a Topipittori, che scelsero un’illustratrice d’eccezione - Marina Marcolin - che le ha rivissute e ne ha fatto anche il suo racconto: decidendo l’ordine delle poesie e aggiungendo alla mia la sua propria e grande vicinanza alla natura, con tavole poetiche ed evocative di impareggiabile maestria.

Le limature e rifaciture del testo sono continuate fino a quasi la fase di stampa, perché il titolo della raccolta l’ho scritto strizzando l’occhio all’ossimoro che contiene… Se è vero che la tendenza a scrivere versi è connaturata all’essere umano, altrettanto vero è che - ispirazione a parte - molto del suo farsi è sapiente (o non sapiente) artificio costruttivo; chi crede che la poesia sia pura effusione di sentimento, si ricreda finché è in tempo…

Vi ho parlato di tutto quanto sta intorno a queste poesie, ma non delle poesie, vero? Perché credo che le poesie parlino da sole, e se avranno dei commenti, non dovranno essere i miei. E poi, rileggendole sul libro (quando il testo, visto stampato, assume una nuova oggettività e rivela cose nuove anche all’autore) mi sono accorta che contengono già tante istruzioni per sentire la natura, interpretarla, appartenerle: bere il vento, cantare il ritmo, chiamare coi colori, sillabare la neve, decifrare la scia di un volo, scrivere il proprio tempo sulla lavagna del cielo…. Il resto… leggetelo, fatelo, immaginatelo, scrivetelo voi.

A te, mio fratello, generoso amico, scienziato che leggevi la poesia e la filosofia, che vivevi e contemplavi e studiavi la natura; e che ora abiti tutti i luoghi della terra, del mare e del cielo, va il mio ricordo vivo d’amore infinito; vibrante di gratitudine per la fortuna, Enrico, di averti avuto con me, con le nostre sorelle, a sentire e amare il mondo.