Tre fratelli piumini

Altro martedì, altro Anno in tasca. Questa volta si tratta di Tre fratelli Piumini, autobiografia di infanzia a tre voci: quella di Roberto Piumini, e delle sue sorelle, Carla e Marirosa. Alcuni dei brani più belli sono nei capitoli dedicati alle vacanze estive, quando dalle montagne della Val Camonica la famiglia si spostava sull'appennino bolognese dove c'era la casa dei nonni. Tutto era un'avventura, a cominciare dal viaggio in treno fino all'arrivo a Casa Gabrielli, dove ogni cosa aveva un sapore diverso e nuovo, e tuttavia conosciuto e amatissimo.

Potrò navigare o volare intorno al mondo, andare con l’astronave fino alle galassie, ma il “viaggio”, la sua idea ed emozione, resteranno sempre quelle del viaggio che, appena finita la scuola, facevamo per andare dai nonni, in Appennino.
Durava un’intera giornata, ma cominciava molti giorni prima, quando io e le mie sorelle, desiderosi e impazienti, lo “recitavamo” nella nostra camera, al buio, prima di addormentarci, in una specie di racconto teatralizzato. Esperto di geografia, io nominavo le fermate alle stazioni, e fra l’una e l’altra imitavo il rumore del treno, i fischi dei capistazione, gli annunci dei venditori di panini e bibite (a quei tempi, nelle brevi soste, i venditori percorrevano la banchina lungo il treno, con pesanti cassette a tracolla, o!rendo la loro merce con una strana voce nasale) e così via.
La rappresentazione era così precisa che, mano a mano che il treno immaginario s’avvicinava alla meta, la voce dei ferrovieri e dei venditori aveva accenti sempre più simili a quelli emiliani.
Anche le sorelle partecipavano alla recita. Qualcuna di loro, sporgendosi dal finestrino immaginario, comprava un panino o una bibita da un venditore: cosa che nella realtà non avveniva mai, perché mia madre non amava le spese, e portava sempre, per l’intera giornata, una borsa con involti e pentolini di cibo preparato.
Fra i letti, nel buio della camera, a un certo punto si svolgeva sottovoce, fra me e le sorelle, una scenetta parlata come questa:
Io, con voce stentorea:
«San Giovanni in Persiceto! San Giovanni in Persiceto!» Poi, con voce nasale e accento bolognese:
«Panini! Panini! Panini buoni, bibite fresche!»
«Venga qui per favore!» (questa era Marirosa, che sapeva recitare)
«Eccomi, bella ragazza!» (detto con la “zeta” sibilante
della parlata emiliana)! Che cosa desidera?”
«Un panino, per favore.»
«Al prosiutto (pronunciato proprio così) cotto, o al prosiutto crudo?» «Cotto, grazie.»
Eravamo abituati al cotto, perché il crudo era caro. «Ecco qui, signorina! E da bere? Una bella aranciata?» «No, grazie. Quanto fa?»
«Cinquanta lire.»
«Fa’ in fretta, Giogia, che riparte il treno!» (questa era Carla, l’altra sorella, per rendere vivace e drammatica la scena).
«Nessun problema, belle signorine! Io cammino con voi, qui sotto, e posso venire fino a Bologna!»
Per scherzo, a un certo punto qualcuno gridava:

«Giornali imbottiti! Panini illustrati!»
Forse, fuori dalla camera dove recitavamo questo teatro di viaggio, mia madre e mio padre ci ascoltavano, e sorridevano.

RICORDO DI MARIROSA
Quando arrivavamo, di sera, a Casa Gabrielli, noi bambini correvamo avanti, mamma e papà con valigie e pacchi, dietro, salivano più adagio.
In un fiato salivamo il pratone, e arrivavamo alla “cantonata”, e poi a destra, ci fermavamo davanti alla porta verde dei nonni, che forse non sapevano del nostro arrivo, e dicevamo insieme una filastrocca:
Siam tre poveri pellegrini, senza pan, senza quattrini, chi ce n’è, chi ce ne dà?
La porta si apriva, e la nonna spalancava le braccia, e diceva a voce alta:
«Ma chi c’è qui! Ma chi c’è qui! Sisto, vieni mo’ a vedere chi c’è qui!»
Era una felicità grande.

RICORDO DI CARLA
Penso i momenti in cui mi trovavo a Casa Gabrielli, la sera, davanti al camino dei nonni.
Quel camino era sempre acceso. La sera, la fiamma saliva alta dai grossi pezzi di legno, chiamati “ciocchi”, e spandeva un forte calore. Le scintille scoppiettavano, e salivano su, spa- rendo nel nero della cappa. Attaccato a una catena di ferro nero, c’era quasi sempre un pentolone pieno d’acqua, pronto a vari usi: la polenta, o un bollito con grossi pezzi di carne.
Al tempo delle castagne c’era invece una grande padella dal lungo manico, bucherellata di sotto, che la nonna scuoteva con colpi decisi ed esperti, finché le caldarroste erano cotte e crocchianti al punto giusto.
Il profumo era meraviglioso.
Al mattino il fuoco non era così grande, ma restavano delle braci accese, dove la nonna appoggiava delle uova appena prese nel pollaio, per farle appena “sudare” e darle a noi per la colazione.