[di Silvia Vecchini]
Qualche giorno fa, mentre in auto ascoltavo la trasmissione Fahrenheit di Radio3, ho sentito parlare della scelta fatta dagli Uffizi di posizionare un’opera d’arte ad altezza di bambino. Sembra che sia il primo museo al mondo a fare una scelta del genere. In modo unanime, senza fare test o questionari, gli educatori museali e gli assistenti di sala della Galleria fiorentina hanno indicato in una tavola dipinta attribuita al Beato Angelico l’opera che attraeva maggiormente l’attenzione dei piccoli visitatori. Per questo si trova ora esposta a 65 cm da terra, in una teca speciale con vetro antisfondamento e antiriflesso.
Eike Schmidt, direttore degli Uffizi, aveva già spiegato qualche tempo fa ai quotidiani l’operazione: «Gli esperti del nostro dipartimento per l'educazione ci hanno segnalato che la Tebaide è l'opera prediletta dai bimbi che entrano in Galleria. Tanti piccini, ogni giorno, si fermano ad osservarla affascinati, scoprendo le tante storie, i tanti personaggi, i molti animali raffigurati in questo capolavoro. Abbiamo dunque deciso di pensare a una collocazione che tenesse conto del punto di vista di questa speciale e importantissima categoria di osservatori, in maniera da stimolare ancora di più la loro interazione con l'arte e con questo dipinto in particolare, che in modo così evidente cattura la loro attenzione» (La Repubblica).
Mentre guidavo mi è venuto da sorridere perché a gennaio, entrando nella sala 7, senza conoscere il motivo della sua posizione, istintivamente mi sono diretta verso la tavola del Beato Angelico per poterla osservare bene nei suoi ricchi e minuscoli dettagli. Anch’io ho sostato davanti alla Tebaide a lungo e ricavandone un piacere del tutto particolare. Molto contenta di abbassarmi e fare un passo avanti per poter guardare. Ma per continuare, devo fare un passo indietro.
Da bambina non sono mai entrata in un museo tranne il museo della Pesca del minuscolo paese in cui sono vissuta. Non ho mai visitato musei né con la mia famiglia, né con la scuola. È andata così, non è capitato. Da me, durante gli anni della scuola elementare si andava in gita in fattoria, alla centrale del latte, si facevano concorsi di disegno su fogli già squadrati e premiazioni in hotel dove spesso volevano venderti qualcosa. Una volta andammo a Fiumicino e tornai sapendo perfettamente le parti di cui era composto un aereo e tutto quello che si può imparare a otto anni visitando un aeroporto. Ma di gallerie d’arte neanche l’ombra. Quando ho iniziato a visitarne ho capito invece che mi piaceva moltissimo farlo, anche se non conoscevo nulla. Mi sembrava tutto nuovissimo e il fatto di essere lì un autentico e misterioso privilegio. Conservo tuttora la stessa impressione. Credo semplicemente che in fatto di musei e gallerie d’arte resterò una beata principiante per sempre. Un’opinione che si è rafforzata negli anni in cui queste visite sono state condivise con i figli piccoli. Ogni volta che le risorse di tempo e quelle economiche ce lo permettevano, siamo andati sempre insieme e le loro domande rendevano, se ce ne fosse stato bisogno, ancora più nuova e avventurosa l’esperienza.
In ogni modo, quest’anno davanti alla Tebaide ho capito che ero di fronte alla narrazione delle storie dei padri del deserto.
Mi sono ricordata di aver passato, qualche anno fa, ore piacevolissime a leggere il libro Gli eremiti del deserto pubblicato da Quodlibet.
E così, osservando l’opera del Beato Angelico, ho provato a ripescare dalla memoria alcuni episodi. Ecco Antonio che visita Paolo e un corvo porta loro un pane da dividere. Nel libro di Cavazzoni è riportato questo commento di Paolo: «Il Signore è buono con noi – disse Paolo – hai visto? Ci ha mandato il pranzo: da sessant’anni ricevo mezzo pane, ma con il tuo arrivo il rancio è raddoppiato». Ecco, un eremita chiuso in una celletta angusta, proprio come Marciano che si era costruito una cameretta più piccola di lui in cui stava sempre chiuso. Se stava in piedi non poteva star dritto, se si coricava disteso, non poteva allungare le gambe. Il suo allievo Eusebio andava a spiarlo da un finestrino.
Ecco una cerva che si lasca mungere, come l’antilope che con il proprio latte disseta Macario, dopo che l’eremita ha camminato venti giorni di cammino rimanendo senza acqua, né pane. Ecco un asino e quello sulla riva forse è un coccodrillo. Mi hanno fatto pensare a Eleno: «Eleno, un giorno che aveva addosso un gran peso vide nel deserto una fila di asini selvatici. ‘Ehilà – disse – c’è qualcuno che mi dà una mano?’ Un asino uscì dalla fila e si mise a disposizione di Eleno. Un giorno che doveva traversare il Nilo infestato da un coccodrillo, lo chiamò e il coccodrillo mansueto come un agnellino lo portò di là. Poi bastava che lo chiamasse e il coccodrillo veniva per traghettarlo. Ma nessun altro si fidava a montare con lui. Allora lo chiamò e gli disse: ‘Forse è meglio tu muoia, piuttosto che ti prenda la voglia di compiere ancora reati e omicidi’. Così detto il coccodrillo si afflosciò morto» (Ermanno Cavazzoni, Gli eremiti del deserto, Quodlibet 2016).
Ma il pensiero attorno al quale continuavo a girare dopo aver sentito l’intervista del diretto degli Uffizi non riguardava le storie della Tebaide quanto il modo di osservare dei bambini.
Perché quella tavola dipinta poteva piacere loro così tanto? Nell’epoca in cui venivano dipinte, immagini come queste erano giudicate utili all’anima e la loro osservazione era unita alla contemplazione. Le Tebaidi hanno conosciuto una fortuna crescente collegata agli ordini francescani e domenicani. Fortuna che poi si è rivelata effimera quando il tema è passato di moda. La Tebaide insomma racconta un soggetto complesso come quello delle vite degli eremiti nel deserto durante i primi secoli del cristianesimo. Non è facile da decifrare. Alcune scene sono enigmatiche, i personaggi non sono immediatamente riconoscibili. Le loro storie sono antiche.
Allora, che cosa può avere di speciale da catturare l’attenzione dei bambini? Quella dipinta dal Beato Angelico è una scena senza centro, composta da tante e diverse parti che invitano a osservare passando da un luogo all’altro, a tornare e soffermarsi, a scoprire, a confrontare. Tutto è fermo e allo stesso tempo suggerisce un grande movimento.
La narrazione dell’opera, scritta da Mohammad Aletaha e letta da Marco Paolini (nel sito della Galleria degli Uffizi è disponibile l’audio a questo link) inizia così: «In questo dipinto nessuno è solo. Ecco che cosa mi affascinato subito avvicinandomi alla Tebaide. Un brulicare di vita in quello che dovrebbe essere il deserto vicino a Tebe, in Egitto. Posso sentire le voci dei tanti personaggi che lo percorrono e lo abitano, posso sentire il vento che soffia sul fiume increspandone la superficie e tra gli alberi scompigliandone le chiome…»
Un brulicare di vita.
Ecco. La Tebaide è un esempio di Wimmelbild. Wimmelbilder sono le immagini di cui sono fatti i Wimmelbilderbücher. Wimmeln significa brulicare. Das Bild, l'immagine. Das Buch, il libro. Da queste tre parole nasce la parola composta Wimmelbilderbücher.
Maria Polita, su Scaffale Basso, presenta questa tipologia di libri molto amati dai bambini: «Sono un tipo particolare di silent book: sono libri cartonati, spesso di grandi dimensioni, quasi totalmente privi di parole, ma densamente popolati di particolari tra cui perdersi ed entro cui cercare e annodare storie. Non esiste una traduzione italiana di questa parola perché questi libri nascono e prolificano tuttora prevalentemente nella tradizione e nell’editoria tedesca, potremmo chiamarli “libri brulicanti”» (si può leggere l’interessante articolo per intero a questo link).
Ho pensato quindi che la predilezione dei bambini per la Tebaide mi desse qualche informazione sul modo che hanno i bambini di osservare le immagini e mi conducesse proprio verso i wimmelbilderbücher fatti di immagini brulicanti di vita. Giulia Mirandola di recente ne ha scritto su questo stesso blog con la sua competenza e la ricca esperienza di lettura con bambini piccoli e piccolissimi in occasione della pubblicazione in Italia dei libri di Rotraut Susanne Berner per Topipittori.
Copertina distesa e prima pagina di Inverno, di Rotraut Susanne Berner (Topipittori, 2018).
Mi piace riportare questo aspetto particolare colto da Giulia Mirandola: «È la vita stessa che offre un esempio ammaliante di Wimmelbild. Il mondo in cui viviamo, se il tempo si fermasse, non sarebbe forse una perfetta Wimmelbild? La vita intorno ci tiene svegli, guarda qui, guarda lì, guarda sopra, guarda sotto, guarda davanti, guarda dietro, guarda prima, guarda adesso, guarda poi. Il mezzo con il quale viaggiamo in questo mondo "nuovo", disegnato e apparente, è lo sguardo. Lo sguardo è mobile, la mente altrettanto. Le illustrazioni, invece, sono fisse. La fissità delle immagini è il presupposto perché i pensieri possano avere il tempo di affacciarsi, esprimersi, spaziare».
Due anni fa, a Città di Castello (Perugia), ho visitato una mostra sui wimmelbilderbücher organizzata dalla Libreria Paci La Tifernate e dall’associazione Grow hub aps, e ideata e curata da Lucia Girelli. La mostra era intitolata Uno sguardo non basta. Come me hanno fatto anche tanti bambini, genitori e insegnanti. In questo modo i “libri brulicanti” sono entrati in case e scuole quando prima erano poco conosciuti.
Credo che il mio interesse per la notizia che riguarda la Tebaide e la predilezione accordatale dai bambini sia proprio legato al titolo di quella mostra. Ho pensato che sono proprio i bambini a ricordarci che uno sguardo non basta. Che hanno bisogno di fare meno e avere più tempo. Che hanno bisogno di qualcuno che avvicini loro le cose, che le porti all’altezza del loro sguardo. E forse a volte hanno anche bisogno di meno lettura ad alta voce e più spazio per la propria voce e i propri pensieri che leggono (per cortesia, non fraintendetemi). Scrive Giulia a proposito dei libri di Rotraut Susanne Berner: «I bambini leggono autonomamente. I Wimmelbilderbücher di Rotraut Susanne Berner dicono stop alla lettura ad alta voce da parte degli adulti. Non tutti i libri devono essere mediati dalla lettura ad alta voce dell'adulto. I bambini hanno una propria voce che Autunno e Inverno è in grado di chiamare a sé, stimolare, tenere viva».
La preferenza accordata alla Tebaide mi suggerisce anche quest’altro pensiero. Mentre tiriamo dritto, se facciamo attenzione, possiamo sentire una piccola mano stringere la nostra e una voce dire senza parole: «Aspetta. Vai più piano. Voglio fermarmi qui. C’è tanto da guardare in una sola cosa e se non tu vedi, ti mostro io. Tu ferma il tempo. Per una volta ascolta, ti racconterò io». Se siamo in compagnia di un bambino, è facile che sia il suo desiderio a parlare. Se siamo per conto nostro, allora può essere qualcosa in noi che chiede di fermarci ed essere attenti.
A mio avviso questa voce riguarda in qualche modo la poesia. Sicuramente è un mio difetto ricondurre tutto alla poesia. Ma devo ammettere che ho pensato questo. La poesia fa come i bambini, fa come i wimmelbilderbücher. Dice: Aspetta, guarda là, guarda su, guarda prima, guarda adesso. Anche la poesia prova a tenerci svegli. Ferma il tempo e ci chiede di osservare i dettagli e tutto l’insieme. Lo chiede a noi che siamo spesso “un chiodo piantato troppo in superficie”. Leggo sempre questa poesia di Wisława Szymborska prima di iniziare un laboratorio di scrittura con gli adulti. Per provare a svegliarci.
Disattenzione
Ieri mi sono comportata male nel cosmo.
Ho passato tutto il giorno senza fare domanda,
senza stupirmi di niente.
Ho svolto attività quotidiane,
come se ciò fosse tutto il dovuto.
Inspirazione, espirazione, un passo dopo l’altro, incombenze,
ma senza un pensiero che andasse più in là
dell’uscire di casa e del tornarmene a casa.
Il mondo avrebbe potuto essere preso per un mondo folle,
e io l’ho preso solo per uso ordinario.
Nessun come e perché –
e da dove è saltato fuori uno così –
e a che gli servono tanti dettagli in movimento.
Ero come un chiodo piantato troppo in superficie nel muro
(e qui un paragone che mi è mancato).
Uno dopo l’altro avvenivano cambiamenti
perfino nell’ambito ristretto d’un batter d’occhio.
Su un tavolo più giovane da una mano d’un giorno più giovane
il pane di ieri era tagliato diversamente.
Le nuvole erano come non mai e la pioggia era come non mai,
poiché dopotutto cadeva con gocce diverse.
La terra girava intorno al proprio asse,
ma già in uno spazio lasciato per sempre.
È durato 24 ore buone.
1440 minuti di occasioni.
86.400 secondi in visione.
Il savoir-vivre cosmico,
benché taccia sul nostro conto,
tuttavia esige qualcosa da noi:
un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal
e una partecipazione stupita a questo gioco
con regole ignote.
La poesia è uno sguardo che corre dappertutto e si posa lungamente sulle cose. E ci chiede una partecipazione stupita a ciò che accade intorno e ai suoi dettagli. È uno sguardo che ha bisogno di tempo. E per quanto vada in profondità, come scrive Christian Bobin, non forza l’oggetto: «Mi sembra che la poesia sia come una spiegazione, ma che non spieghi niente. È come una scienza, è la sola scienza che non maltratta il suo oggetto. Forse perché non lo tratta come un oggetto, per l’appunto. La poesia entra nel mondo come in una casa amica, rivela l’oggetto, lo porta a rivelarsi, non lo forza. (…) Mi sembra che le cose vengano molto più facilmente a noi se accordiamo loro il tempo che richiedono.» (Christian Bobin, Abitare poeticamente il mondo. Le platrier siffleur, AnimaMundi Edizioni).
La poesia insegna a guardare e conoscere così. E mi sembra che anche i bambini, se li lasciamo fare, amino questo modo di conoscere. Basta osservarli quando sono concentrati nel gioco o presi nell’esplorazione delle immagini o di uno spazio nuovo. E forse è per questo che amano i wimmelbilderbücher e che agli Uffizi hanno scelto di fatto la Tebaide, una wimmelbild del 1420.
Anche noi dovremmo guardare i bambini come la poesia guarda il mondo. Senza disattenzione, senza correre, senza forzare l’oggetto del nostro interesse, con una partecipazione stupita.
Mettere un capolavoro dell’arte ad altezza di bambino è forse un gesto che va in questa direzione.
I miei figli non sono più bambini, ma visitiamo ancora musei insieme. Agli Uffizi ci hanno rapidamente abbandonato per girare le sale insieme a due amici. Beatrice è andata a cercare Caravaggio, Giovanni e Teresa cercavano di riconoscere le opere che stavano studiando in quei mesi a scuola. Ma tornando in auto, sentendoli ridere sui sedili posteriori, abbiamo capito che avevano anche giocato.