Una cosa bella di giugno

ovvero Ascoltare le educatrici della scuola dell'infanzia che raccontano i bambini

[di Michele Longo]

Nelle settimane di scuola senza bambini di giugno, se possibile, mi faccio mettere nella "commissione formazione future prime". Il lavoro consiste nel dividere i nuovi iscritti, che non abbiamo ancora visto, in classi che siano il più possibile disomogenee al loro interno e omogenee tra loro. Insomma, bisogna evitare di concentrare i "bravi" nella A, far attenzione a non mettere insieme due o più Furiosi, non creare senza accorgersi una sezione femminile ecc. Tengo da parte il dubbio che se si estraessero i nomi a caso il risultato sarebbe forse uguale, proiettato su cinque anni, e alla fine mi diverto: si lavora davvero, si crea spesso un bel clima, si imparano moltissime cose.

Nella prima fase incontriamo le educatrici delle Scuole dell'Infanzia frequentate dai nostri nuovi iscritti. Ci raccontano i bambini, compiliamo i moduli personali della nostra scuola, redatti in stile psicologia vintage anni Cinquanta con "leader" e "gregari", cerchiamo di carpire inutili notizie fuori registro, ci studiamo a vicenda, giochiamo tra due sponde contigue. A me le educatrici della Scuola dell'Infanzia piacciono quasi sempre moltissimo. Oggi ne abbiamo incontrate sei, in tre coppie: sezione gialla, rossa, viola. Ce li hanno raccontati, i loro quasi ex bambini, che era proprio bello starle a sentire: con una lingua agile, a presa rapida, un po’ di parole della psicologia e della pedagogia usate in modo arguto e confidenziale, qualche formula che se si sentiva distillata nel piacere della riflessione ex-post – la bambina empirista! -; con uno sguardo partecipe, profondamente simpatetico, e l’autoironia sempre a portata di mano. Ci hanno descritto delle “persone piccole”, secondo la definizione di Beatrice Alemagna nel classico albo Che cos’è un bambino?.  Ho avuto una sensazione di leggera vertigine, pensando a quanta storia hanno già alle spalle queste Creature che per noi son piccolissime, quanto hanno sperimentato a scuola, quella dell’infanzia appunto, negli anni cruciali dai tre ai cinque. E prima. E poi, nell’estate appena iniziata.

A settembre arrivano i remigini e tempo due giorni noi maestre cominciano a dire, nei corridoi e in cortile, che sarà una faticaccia perché questi proprio “non sono scolarizzati”. Sul cortile affaccia la scuola dell’infanzia da cui proviene la maggior parte di loro, e le educatrici escono qualche volta a salutarli. Noi non ci facciamo caso. Il controsenso del “non scolarizzati” significa, in realtà, che i bambini non stanno seduti al banco, e, più genericamente, che la scuola dell’infanzia non è una vera scuola. I primini, dunque, per prima cosa devono essere “scolarizzati”, cioè sottoposti a una fase estenuante di addestramento incentrata su alcuni dogmi della scuola primaria: la sedia e il banco, la fila per due, andare in bagno tutti insieme 3-4 volte al giorno, l’astuccio completo, il silenzio. “Conventuale!”, come il folle intercalare del narratore ne Il maestro di Vigevano di Mastronardi, che forse bisognerebbe avere il coraggio di rileggere. L’addestramento lo patisco quasi quanto i bambini, e non riesco mai a posizionarmi con decisione tra il non farlo, o il farlo con leggerezza e amen. (“Conventuale!” “Prosit!”). I

l bagno-tutti-insieme e gli altri dogmi cerco di farli rientrare nella quota di assurdo che, secondo me, bisogna tollerare in ogni istituzione, e forse in ogni situazione della vita, soprattutto quelle educative. In fondo, credo che i bambini siano in grado di riconoscere e tollerare l’assurdo meglio di noi, e forse anche di trarne qualche insegnamento. Il problema è che la sedia-e-il-banco, la fila per due, il bagno sincronizzato, vanno tutti nella direzione di limitare l’autonomia dei bambini. Mi sembra che nella scuola dell’infanzia si faccia un grande lavoro verso l’autonomia, che la scuola primaria provvede a disfare fin dai primi giorni. Questo mi dispiace profondamente, soprattutto da un punto di vista pedagogico. La cultura istituzionale della scuola dell’infanzia - mi sembra evidente - è molto più avanzata di quella della scuola primaria. 

La scuola elementare/primaria, del resto, ha una storia molto più antica, e non fa meraviglia che sia caratterizzata da tradizioni e pratiche che il pedagogista Daniele Novara definisce “inerziali”, come l’ora scandita dalla campanella, o il cortile piatto, senza alberi e nascondigli. Forse, prima di farci descrivere i bambini, avremmo bisogno di farci spiegare la scuola da cui provengono, di osservarla per un breve periodo. C’è una grande dispersione di conoscenza, nel passaggio tra i due ordini. È un peccato.

La maestra che qui scrive, sia chiaro, non è preda di un attacco di teosofia, né ha preso la via del bosco. Solo, camminando verso casa con l’allegria di un pomeriggio speso bene, mi è venuto in mente che, forse, piuttosto che “descolarizzare la società”, come auspicava il filosofo Ivan Illich nel saggio omonimo, si potrebbe descolarizzare un po’ la testa delle maestre. A partire dalla mia, s’intende.

Le immagini di questo post si riferiscono a collages con carte di di campionario realizzati in classe dalla mia ultima quinta.