Una voglia irresistibile di sbucciarsi un ginocchio

La settima novità dell'autunno è l'attesissimo nuovo libro di Beatrice Alemgna: Io e Pepper!

[di Giovanna Zoboli]

Mi auguro che, un giorno, qualcuno si laurei con una tesi così intitolata: Corpi e bambini: la rappresentazione dell’infanzia nei libri a figure di Beatrice Alemagna (scrivo libri a figure in omaggio a Sergio Ruzzier che trova impropria la dizione albi illustrati, e ha ragione).

Certe volte, guardando le illustrazioni di Beatrice, mi viene da pensare che quasi non avrebbero bisogno di testo, tale è la precisione con cui riportano gli stati d’animo e centrano la condizione dei personaggi attraverso la rappresentazione dei loro corpi. Sono certa che questa idea potrebbe irritarla, e a ragione: in effetti se c’è un testo in un libro illustrato è perché fa la metà del lavoro, come spiega Sendak in una celebre definizione di picture book

In attesa che qualcuno studi la demoniaca bravura di Alemagna nel disegnare corpi infantili, vi spiego il mio punto di vista.

Prendete la bambina protagonista di Io e Pepper, da poco in libreria. Come quasi tutti i bambini, Io che non ha un nome perché nel libro parla in prima persona, è uno strano essere, mutevole, che a tratti appare più maschio che femmina, ritratta in diverse posture, tutte tipicamente bambinesche. Porta dei vestiti con cui ha una relazione di abitazione e di amicizia più che di abbigliamento. Sembra averci fatto il nido, esserci entrata per trovare riparo e per cavarne la sottile contentezza di qualcosa che ti corrisponde come una pelle. Ci si muove con agio, anche se è un po’ infagottata: le maniche pencolano un po’ troppo lunghe, le calze scendono, irrimediabilmente. I calzoncini hanno stretto con le gambette un patto di reciproca alleanza che ha a che fare con la libertà.

La vediamo china, pensosa, assorta, preoccupata, camminare con la testa fra le nuvole, piangere, a gambe per aria, guardarsi a testa in giù una crosta sul ginocchio, tutto con quella dimestichezza che si ha durante l’infanzia con il corpo, macchina goffa e gentile, imprevedibile e sorprendente, che cresce insieme a chi l’ha ricevuto in carico, piena di energie, fonte di inquietudini, emozioni, sbandamenti. Non si tratta di semplici posture, ma di un catalogo di stati dell’esser piccoli che le persone adulte riconosceranno subito con nostalgia. In Io e Pepper, storia di un’amicizia fra una bambina e la crosta al ginocchio che si è procurata cadendo, questi aspetti sono presenti al massimo grado, perché una ferita sulla pelle integra e intatta di un bambino è un evento degno di nota e da esplorare a trecentosessanta gradi.

Beatrice in queste pagine, infatti, fa della relazione fra la protagonista e il suo corpo il centro del racconto. Io all’inizio della storia cade a faccia in giù, in quel modo in cui si cade da bambini, durante quelle giornate di 48 ore che si attraversano saltando, saltellando, correndo, giocando, spostando, rovesciando, inciampando, prendendo contro, in uno stato che prevede la quiete solo al momento del crollo serale. Io si sbuccia un ginocchio, piange, viene soccorsa, consolata, medicata. Poi, rimasta sola a tu per tu con la crosta, la scruta, diffidente, chiedendosi quando sloggerà dalla sua gamba, permettendo al suo corpo di ristabilire l’integrità e la sicurezza perdute.

Ma qui arriva il primo colpo di scena. Anziché attendere nevroticamente che la ferita, simbolica e letterale, scompaia il più rapidamente possibile e venga dimenticata, nella più tipica ottica adulta, la crosta viene battezzata: Pepper, come il cane di uno zio. E qui entriamo in quel territorio infantile baciato dal genio. Il battesimo di Pepper afferma che la crosta è animata da vita propria. Non si manifesta, ogni giorno, del resto, con qualcosa di nuovo, nel suo modificarsi? Se la tormenti, come ha fatto chiunque abbia avuto una crosta da piccolo, scopri che torna a sanguinare, perché sotto è viva.

Poco dopo essere stata battezzata, Pepper si mette anche a parlare, altro colpo di genio. Per prima cosa si lagna del nome che le è stato dato, perché in effetti è abbastanza coerente che una crosta sia un po’ lagnosa. Poi pretende di andare in vacanza dai nonni, insieme a Io. Nonni che, peraltro, hanno ben altro da fare che notare Pepper, perché di croste nella loro lunga vita ne hanno viste a bizzeffe. Nel gran silenzio della campagna, un po' annoiata, Io prende a parlare con Pepper. Le racconta di quando si è persa nella foresta, della paura dei ragni, del sogno di andare in Giappone e di quello, immenso, di avere un cane tutto suo. Pepper ascolta, e Io ha pure l'impressione che qualche volta sorrida. Insomma, fra uno scambio di idee e l’altro, bambina e crosta crescono, procedendo, ognuna a modo proprio, verso la guarigione.

E qui mi fermo, senza aggiungere altro, per non rovinare la sorpresa ai lettori che nel frattempo, arrivati a questo punto, si saranno incuriositi, spero, di queste meravigliose avventure del corpo infantile. Un corpo così vivo e intelligente, spigliato, avventuroso e pieno di timori che viene subito una voglia irresistibile di sbucciarsi un ginocchio per recuperare qualcosa della sua memoria.