A volte su Facebook, in mezzo al flusso indiscriminato di informazioni, commenti, opinioni, polemiche etc., si incontrano riflessioni importanti. Questo articolo nasce da una di queste: Benedetta Pisi, insegnante, a proposito del proprio lavoro rifletteva sul significato di due parole: difficile e faticoso. Due parole che oggi sono quasi tabù, perché pare che ogni cosa, in ogni ambito, non solo quello educativo, debba essere promossa e presentata come facile e senza sforzo. Ci è piaciuta per questo, la sua riflessione, e la ringraziamo per aver accolto la nostra proposta di riprenderla ed espanderla per il nostro blog che, con questo pezzo, riprende il dibattito sulla scuola.
[di Benedetta Pisi]
Mi sono persa qualche anno fa, tra le strade delle aule. Non lo sapevo ancora, ma ero alla ricerca di una definizione sul mio lavoro, poche parole che circondassero perfettamente ciò che stavo facendo. Sono inciampata in un mio appunto sull’insegnare, avevo scritto «siamo custodi di una mancanza». Non so chi lo ha detto, non so chi lo ha scritto, ma di certo io sono una custode. E se penso all’anno che è passato e a come desidererei ricominciare, posso dire con certezza che sono una custode della mancanza di parole. Mi piace sapere che le parole possono mancare ancora, che per l’ultima detta ce ne sarà una che fiorisce e scandisce ancora meglio ciò che intendiamo, in una specie di messa a fuoco sempre più precisa. «Come lo puoi dire meglio», «forse intendevi dire che», «cerca ancora, aspetta prima di dire che è quella giusta». I miei ragazzi mi hanno sentito pronunciare queste frasi continuamente, sono stati al gioco, si sono caricati sulle spalle lo zaino insieme a me e ci siamo addentrati nei boschi dei significati.
Intanto con me c’era Sara per due preziosissime ore a settimana. Potenziamento. Insegnante di musica. Coltivava il silenzio. Usava coi ragazzi il linguaggio dei segni. Mi ha detto «Si sprecano troppe parole». Ci sono rimasta pure un po' male all’inizio, io sempre ad aggiustare quello che ci siamo appena detti. Poi ho capito che forse potevo custodire anche meglio di come avevo fatto fino a quel momento. Potevo aspettare, guidare i ragazzi alla ricerca di parole, ma più lentamente, con percorsi dedicati, con un’immersione nel mondo del linguaggio paziente. Nel silenzio la parola che deve arrivare entra solitaria, mentre io prima andavo a rincorrerla e spesso lei riusciva a sfuggire. Insieme a Sara abbiamo assaggiato il silenzio, lo abbiamo cantato con i gesti, ci siamo un po' vergognati e poi abbiamo goduto di questi momenti di quiete. Momenti che poi portano con sé tante parole, perché nasce spontanea la voglia di raccontarli.
D. un giorno mi ha detto che dopo il silenzio, la musica e i gesti le sembrava di riuscire a lasciarsi andare, come quando una treccia si disfa e le tre falde di capelli tornano a unirsi, morbide.
Poi è arrivato febbraio e io di parole per tanto tempo non ne ho cercate più. Non come facevo prima. Durante le lezioni a distanza mi pareva che le parole cadessero giù, disgregandosi nei pezzetti di alfabeto con cui si pronunciano, raggiungevano i miei ascoltatori, ma non comunicavano. Abbiamo letto, abbiamo scritto, in un qualche modo ci siamo dati una possibilità per imparare nonostante tutto. Dicevamo, facevamo e intanto io cercavo di mettere a fuoco la mancanza di quel periodo. Mi sentivo costantemente affaticata e in affanno. Derubati di un luogo, non riuscivamo più a creare la dimensione in cui potevamo ascoltarci.
Ho cercato di ovviare a questa mancanza di luogo con dei momenti di incontro individuale. Prima di connettermi e dire ciao allo schermo lasciavo una traccia per la chiacchierata che avremmo fatto. Com’è il ritmo delle tue giornate? Sai quella cosa che hai scritto sul testo? Io penso che dovremmo partire da lì. Ah davvero il trasloco è stato per te un momento di crescita? Cosa ricordi? Mi racconti di uno scatolone speciale? Mi rendevo conto che potevamo avere un po' di benessere se le parole ci aiutavano a scavalcare il tempo che non scorreva più. Alla fine di maggio, però, ho risentito forte la mancanza di parole e così ce le ho messe io. Era ora di lavorare perché ognuno di loro riuscisse a pronunciare qualcosa su di sé, riuscisse a dire io la penso così, a me è successo questo. Sono partita da me stessa e ho condiviso con loro la mia fatica e la mia difficoltà. Ho capito che queste due parole - difficile, faticoso - scuotevano un poco il loro sguardo e ho cominciato a chiedere cos’era stato faticoso nei mesi trascorsi e cos’era stato difficile, ho messo queste due parole nelle loro mani e le abbiamo guardate un po' insieme. Hanno lo stesso significato? Dove si distinguono? La tua esperienza dove incontra queste parole?
Per G. è difficile fare senza l’insegnante. Mi chiede in che senso uso queste parole: prima confonde le due parole nello spiegare, poi gli si aprono bene gli occhi e ha afferrato ciò che intende. «Faticoso è quando insisti e ti stanchi. Poi sembra che funzioni, ma no. Difficile è quando la prof spiega tanto, però poi capisci e sei felice».
L. mi srotola l’ansia che lo ha accompagnato, quella di non essere in pari con gli altri. Gli dico che sta facendo il suo percorso, gli svelo che la classe non c’è più, che, nel bene e nel male, deve pensare come se fosse solo. Su difficile e faticoso si illumina subito, sa cosa dirmi e ne è già soddisfatto. «Difficile è ciò che non è mai banale, contiene un rischio, faticoso invece fa rima con noioso». Aggiunge che «faticoso è come quando andrà a lavorare». Aggiunge che le lezioni online sono state faticose e in più gli generavano una gran malinconia.
F. prende un pezzo di silenzio, di quello buono però, è un ragazzo con una capacità riflessiva grandissima. «Difficile, prof, secondo me è tutto ciò che devi ancora imparare, faticoso lo sai fare e non lo vedi». Su questo «non lo vedi» lui vorrebbe chiudere e ciao ciao, ma io non mollo. Ci diciamo qualche cosa, cerco di scartare i suoi pensieri e così mi fa felice - mi conosce - e chiosa con «insomma prof, faticosa è una cosa opaca. Difficile è una cosa cangiante, che fa luce. Penso a un punto luminescente che attira lo sguardo».
Cavoli! Quante cose opache ho proposto nella mia vita di custode delle mancanze? E quante cangianti? Nel mio cervello si attiva un mumble mumble e mi chiedo se sia la regolarità a produrre apprendimento o se sono le imprese cangianti, le proposte in cui non si sa dove si sta andando, perché è tutto nuovo, strano. Certo. Un equilibrio ben pensato tra entrambe. Eppure qualcosa ancora manca.
Su A. pesa il confronto con gli altri, con chi è più intelligente e prende voti alti - e intanto maledico quei numeri - la difficoltà per lei è questo rincorrere qualcosa che, mi viene da pensare, non la riguarda. Come dirigere i suoi passi? Come accompagnarla su una strada che le appartenga? Le chiedo, allora, cosa ha fatto di difficile che però vorrebbe continuare. Cerco di aiutarla a distinguere ciò che ha senso, con ciò che non lo ha. Mi racconta che il professore di tecnologia ha proposto ai ragazzi di rappresentare dei fili incastrati tra loro e che le è piaciuto, anche se è stato difficile. Le dico di conservare il disegno. Dovremo ripartire da qui, da questi difficili fili incastrati.
D. è una lottatrice. Tiene il cappuccio in testa, da marzo. Mi viene in mente un pugile. Per lei è stato difficile tutto l’insieme, perché aveva troppo poco tempo per capire i concetti. E allora penso che la parola scholè, che il mondo latino ha ereditato dal greco, porta un significato avverbiale: lentamente, con ozio. Si procede lentamente a scuola? Se unissimo la lentezza alle cose cangianti cosa succederebbe? Anche su D. il lavoro di tecnologia sulle fibre tessili - comprendo che cosa mi diceva pochi attimi prima A. sui fili incastrati - ha generato difficoltà, ma anche soddisfazione. E intanto mi chiedo se sia fatica o sia difficoltà a generare soddisfazione.
J. mi fa un esempio pratico: difficile è tenere divise le cartelle delle varie materie, ci vuole molta concentrazione. Ma sa distinguere bene un processo importante nell’acquisizione di metodo. Una cosa faticosa non può durare a lungo, c’è bisogno di farla in momenti diversi, ad esempio la ricerca di scienze. Se invece una cosa è difficile, come lo studio delle parole dell’architettura in arte, allora la puoi fare anche in un solo pomeriggio. Concludiamo insieme che per fare una cosa difficile c’è bisogno di immergersi, per andare sul fondo del mare e stare lì, a guardare nel buio per un po', stare un po' soli e poi risalire per chiedere aiuto su ciò che non si è compreso.
Da tanti altri, altre parole. Per la maggior parte di loro nella fatica ci vuole una specie equilibrio, come nello studiare tutti i giorni. «Nella difficoltà però le cose cambiano» (S.).
Rileggo le loro parole, rivedo i cambiamenti di luce dalle finestre delle loro camere da letto, dalle cucine con i tavoli pieni di libri. Penso che a volte confondiamo. Confondiamo la parola difficile con faticoso, ma anche la parola lentezza con regolarità. Ha senso questo modo di stare a scuola in cui non ci si prende la libertà di strappare i ragazzi proprio dalla regolarità? Sono l’unica che a intervalli stabili pensa che è ora di strappare, cambiare ritmo, guardare una cosa più bella e quindi, più difficile? Per me è stato troppo faticoso il tempo che dalla fine di febbraio è arrivato a giugno e se anche nella mia testa le due parole tendono ad avvicinarsi molto spesso, come nella testa dei ragazzi, vorrei avere un tempo più lento, in cui ascoltare il silenzio e fare, insieme a loro, delle cose difficili. Vorrei che le cose cambiassero. Abbiamo messo in tasca le cose difficili e faticose. Entrerò in classe con un foglio grande dove ho messo per loro tutto quello che, in parte, ho trascritto qui. Presto qualcosa d’altro verrà a mancare e io ripartirò da lì.