Cambiamo gioco?

[di Giulia Orombelli]

«L’anima di una società si rivela nel modo in cui tratta i suoi figli.» [Nelson Mandela]

L’altro giorno, a scuola, mi sono accorta di una cosa bellissima: sono spariti dalle mani dei bambini tutti quei pupazzetti, mostriciattoli, bamboline, animaletti, rigorosamente in plastica, che invadevano gli intervalli. Il covid è riuscito laddove noi tutti - genitori, educatori e insegnanti - abbiamo fallito: ha liberato il gioco dei bambini, perlomeno a scuola, perlomeno quest’anno, dall’oppressione dei giochini in plastica da collezionare. La pandemia, nonostante tutto, ha portato qualche piccolo germoglio positivo, mi sono detta, mentre guardavo i bambini rincorrersi felici. Sembrerò antica, ma Nascondino, Ce l’hai, Guardie e ladri, Sparviero mi sembrano ancora giochi bellissimi.

Niente più bamboline tozze, poco bambine e molto “signorine”, accessoriate di lustrini sberluccicanti, con lunghi capelli viola e fuxia, un po’ volgari, con quegli occhioni sproporzionati e truccati. «Qualcuno le ha mai davvero guardate?» mi chiedevo quando vedevo le bambine a terra con il grande album di plastica in cui inserire le immagini plastificate delle bamboline. Sì, perché ogni gioco “pensato” per i bambini porta con sé una valanga di gadget: felpe e vestiti, album, accessori per la scuola, altri giochini. Ero poi andata a vedere su internet e ne ero rimasta letteralmente sconvolta: non so quanti milioni di queste bamboline di cattivo gusto sono state vendute e ancora si vendono nel mondo. Su YouTube ci sono molti video dedicati: un uomo e una donna vengono ripresi mentre aprono la confezione-sorpresa e si comportano come bambini, benché abbiano almeno quarant'anni, emettono urletti di godimento e squilli di gioia nello scartare la confezione (sempre in plastica), dalla quale saltano fuori almeno una decina di piccoli accessori.

Le strategie di marketing per trasformare i bambini in consumatori sfrenati fanno leva sulle caratteristiche psicologiche dei bambini. Lo spiega in modo chiarissimo Joel Bakan nel libro Assalto all’infanzia (Feltrinelli, 2012). Le chiavi d’ingresso che aprono il mondo dell’infanzia sono le emozioni: la tenerezza e l’amore, la paura, il desiderio di imitare gli adulti, la passione per il collezionismo e per la sorpresa, il desiderio di sentirsi come gli altri. A ciò si aggiunge la dimensione social, che amplifica il fenomeno, attraverso video insulsi ed esteticamente poverissimi, che rubano il tempo dei bambini, al solo scopo di rafforzare la stickiness (l’appiccicosità, la capacità di tenere incollati gli utenti). Viene il sospetto che le dimensioni tascabili dei gadget siano state progettate anche per portarli a scuola, contando proprio sull’effetto contagio. Ho provato a guardare anche certi video di famosi youtuber, seguiti da centinaia di migliaia di bambini e la prima cosa che salta agli occhi è la loro assoluta insignificanza. Alcuni sono peggiori di altri perché non sono espliciti, si ammantano di infantilismo o possono sembrare quasi educativi, perlomeno innocui; in realtà sono inadatti ai bambini e dietro non c’è nulla, se non il profitto di chi vende.

Elastico.

Corsa con la corda.

Gimcana con cucchiaio.

Treno di monopattini.

Bakan aggiunge che «gli addetti al marketing rivolto ai bambini hanno trasformato in arte l’abilità di recidere il legame tra genitori e figli». Quel naturale desiderio di sfida e di affermazione, che è proprio dei bambini (i capricci sono sempre esistiti!), viene sfruttato e diventa profondamente divisivo. Questo spiegherebbe almeno in parte perché è così difficile, per i genitori di oggi, dire un no e sostenerlo. Più di tutto a scuola lo vediamo nelle dipendenze da videogiochi, che colpiscono alcuni bambini (per fortuna sono ancora tanti i bambini che non ci giocano). I maschi, in particolare, restano appiccicati. Ne vediamo anche gli effetti: a parte i disturbi dell’attenzione, di cui si discute ormai da anni, la cosa che mi colpisce quando un videogioco conquista un bambino, è che quel mondo diventa totalizzante per lui, comincia a parlare solo di quello, a disegnare solo quello e a desiderare solo quello. Se poi il videogioco contagia altri compagni, il gruppetto tende a isolarsi dagli altri.

Non ho qui il tempo e lo spazio per approfondire la questione dei videogiochi come di tutti gli altri gadget (ogni anno c’è una moda nuova, una nuova trovata virale). Rimando ai libri di Bakan, a Demenza digitale di Manfred Spitzer (Corbaccio, 2013) e ai tanti studi seri che sono stati fatti recentemente. Ci tengo di più a testimoniare che senza gadget i bambini stanno benissimo, anzi stanno meglio. Lo vediamo a scuola proprio quest’anno che non si possono portare i piccoli giochi da cartella per via del covid. Su questo non ho dubbi. Hanno il loro corpo per correre e muoversi, hanno la parola e i gesti, gli occhi per guardarsi. Abbiamo modificato il vecchio gioco Virus e lo abbiamo chiamato Covid, è fantastico. Tre o quattro bambini fanno il covid, gli altri sono i globuli bianchi. Se il virus tocca un globulo bianco, questo si ferma con le mani sulla testa. Può essere liberato da altri tre globuli bianchi non contagiati, che lo circondano insieme.  In genere va a finire che il gioco non finisce e a un certo punto ci si ferma sbanfanti sotto le mascherine e contenti. È divertente perché i bambini vanno a salvarsi l’un l’altro correndo come pazzi.

Ci tengo anche a testimoniare che quelle stesse emozioni e inclinazioni dei bambini che vengono usate a scopo di profitto per vendere giochini in plastica e agganciarli allo schermo, in tante altre occasioni si possono attivare per educare al bello, per rinsaldare il legame con i genitori, per dare senso al mondo, per educare ai valori umani. Se il marketing del profitto fa leva sulle emozioni dei bambini per sollecitare valori divisivi, perché «quello che i bambini chiedono non corrisponde a quello che i genitori desiderano per loro», come spiega Bakan, ci sono giochi, collezioni, video e film di qualità che invece fanno leva su valori condivisi da genitori e figli. Dunque giochi che non separano, ma uniscono. Risvegliare la meraviglia, accendere l’immaginazione, giocare con poco, leggere un bel libro insieme, accade ancora e di continuo. È su questo che dobbiamo puntare, non abbiamo altra scelta se davvero vogliamo educare i nostri bambini al rispetto e alla cura del mondo che li circonda e che presto affideremo alle loro mani.

Lettura aerea sul nespolo.

 

Progetto e realizzazione di un casco spaziale.

Viviamo in un’epoca di grandi contraddizioni, come si sente dire di frequente. Una delle più evidenti è proprio quella che riguarda la plastica. A scuola con i ragazzini discutiamo spesso di inquinamento, salvaguardia, biodiversità, ecosistemi e loro restano impressionatissimi dalle immagini della plastica in mare. Eppure nessuno di loro mette in connessione il proprio comportamento con questo. Facciamo fatica anche noi adulti, noi educatori, a mantenere una minima coerenza tra quello che insegniamo e come ci comportiamo. Il contrasto tra tutta quella plastica con la quale giocano i nostri figli va messa in relazione anche all’inquinamento. Benché questo – ovviamente – non costituisca che una minima parte del problema, credo che sia importante come esempio: le nostre scelte devono diventare sempre più responsabili perché siamo davvero in relazione con il mondo intero. Lo abbiamo fatto con le bottiglie di plastica e immediatamente i bambini sono arrivati a scuola con le borracce, felici di contribuire a salvare l’ambiente.

Possiamo provare a interrogarci anche su altre abitudini e sulle nostre (non) scelte educative: cambiare gioco si può.