[di Letizia Soriano]
Domenica primo ottobre, presso la Biblioteca per ragazzi Casa Vignuzzi di Ravenna, si è ragionato di lettura e scrittura a scuola.
L’incontro, organizzato dalla libreria indipendente Momo di Ravenna e inserito all’interno del Mini Momo Fest, ha ospitato una tavola rotonda, di forma quadrata, intitolata "Sull'orlo invisibile”. A guidarne le voci Lisa Bentini, professoressa di lettere di Ravenna, Giovanna Zoboli, scrittrice ed editrice di Topipittori, Silvia Vecchini, scrittrice e poetessa e Alice Keller, scrittrice e formatrice, tra le fondatrici della libreria Momo. L'evento, dedicato agli adulti, è nato come occasione per riflettere sia su ciò che sta intorno alla nascita delle parole (e poi dalla necessità di organizzarle in un metodo quando si insegna ai ragazzi a scrivere) sia come una possibilità in più per diversificare i pensieri e gli approcci alla scrittura a scuola, mescolandoli con la pratica di scrittrici, scrittori, editrici, editori. Quindi da una parte la scrittura, ma dall'altra anche i libri, la lettura e le immagini.
Vorrei innanzitutto raccontare del clima che si respirava all’interno della sala, dove, oltre alla contentezza di incontrare in carne e ossa persone che difficilmente si ha l’occasione di vedere, si avvertiva la voglia e la curiosità di ascoltare, di prendere parte, di riflettere - di domenica mattina, per giunta - su questa tematica importante. Le persone presenti erano, poi, le stesse che, il giorno dopo entrando in classe, avrebbero potuto moltiplicare l’effetto di quell’incontro trasmettendolo ai ragazzi e forse anche a qualche collega.
Dunque un clima vivo e di grande fiducia nei confronti delle parole che saremo andati ad ascoltare.
Ma i ragazzi, quando incontrano le parole, questa fiducia ce l’hanno?
Lisa Bentini ha avuto il coraggio di chiederlo direttamente a loro regalandoci alcune riflessioni che riporto, con il suo permesso:
“Io leggo perché mi piace l’oggetto libro.
Io leggo perché la protagonista ha il mio stesso nome.
Io leggo per immergermi dentro una storia.
Io leggo perché quando mi convinco a leggere un libro, mi ossessiono e devo finirlo a ogni costo.
Io leggo perché mi piace sentire la carta sotto le dita.
Io leggo perché il personaggio di un libro ha una descrizione che combacia con la mia.
Io leggo perché mio papà si lamenta che non leggo mai.
Io leggo perché la biblioteca di Comacchio è bellissima e profuma di libri vecchi…”
“Io leggo solamente i libri che mi regalano oppure i libri che ci assegnano i prof, insomma non leggo quasi mai. La lettura mi ha sempre annoiato fin da quando ero un bambino però un po’ me ne pento perché un libro è un mondo a sé, un regno formato da carta, inchiostro che ti fa spaziare tra la tua immaginazione e ti istruisce spingendoti verso nuovi orizzonti. Se io dovessi leggere lo farei perché mi dimenticherei della mia vita, mi distaccherei da quei pensieri più profondi che mi uccidono e mi consumano da dentro, leggerei per scordarmi delle mie ansie che mi rubano l’oggi e mi fanno avere paura di un domani, leggerei per dimenticarmi del passato il quale non riuscirei a raccontare a nessuno a meno che qualcuno me lo chiedesse in un momento di debolezza, e potrei anche dimenticarmi delle mie paure, come quella di essere pesante nei confronti delle altre persone o di essere noioso”.
Quello che potrebbe accadere, leggendo, è stato l’avvio ai racconti di infanzia delle relatrici, ai loro primi libri, ai loro primi incontri con la parola scritta.
Ciascuna nella sua diversità: pochi libri, molti, terrazze d’estate, illustrazioni belle ma anche brutte, luoghi in cui nascondersi, banchi di scuola, tutte erano sostenute da una relazione molto forte con la lettura, una sorta di alleanza segreta e personale, nuova e diversa da tutto quello che c’era stato prima.
D’altra parte è molto difficile descrivere il proprio rapporto con la lettura, sempre personalissimo e ricco di elementi contrastanti (qualcosa che somiglia all’amore), la cui evoluzione non è quasi mai lineare. Dentro la lettura possiamo pensare, come diceva Silvia Vecchini, anche a tutto ciò che i bambini imparano a leggere prima di imparare a leggere: il tempo, le stelle, i numeri, i segnali, le orme, lo sguardo, i menù, le etichette, i visi delle persone... questa idea semplicissima e meravigliosa che tutti noi leggiamo, continuamente, ogni cosa che ci circonda.
Un esercizio attraverso il quale impariamo a decodificare simboli diversi tra loro e poi a unirli, fino ad arrivare a quel giorno memorabile in cui, osservando un’insegna o una scritta, scopriamo che si tratta di una parola e all’improvviso la sappiamo leggere. Un ricordo che rimane spesso indelebile.
La prima che letto, per esempio, è stata una parola verde chiaro che lampeggiava, spariva e riappariva una lettera alla volta, dall’alto verso il basso. L’ho osservata a lungo mentre ero seduta sul sedile posteriore di una macchina (e chissà dove stavo andando), mentre capivo che c’era scritto proprio FARMACIA. Solo che avevo sei anni e per sbaglio ho fatto cadere l’accento sulla seconda sillaba.
È una grande fortuna trovare la scintilla che ti regala un po’ di fiducia per avviare il percorso della lettura, a prima vista così complicato. Trovare lo spazio per la parola, darle un senso. Saperla leggere anche in base a ciò che accade intorno. Una parola che allontana dal contesto e in un certo senso protegge, come quella dei ragazzi di Chance raccontati da Carla Melazzini nel suo importantissimo libro: Insegnare al principe di Danimarca. Ragazzi che a scuola parlano solo dialetto. Quindi una parola rifiutata, come si rifiuta il mondo esterno, che non capisce, non conosce, non sa. Oppure una parola omertosa e taciuta, come quella raccontata da Nathalie Serraute in Enfance, nel quale la protagonista pur di sfuggire al suo peso e alla sua assenza, inventa un linguaggio personale che pratica di notte e in cui può dire tutte quelle cose che non si dicono: ad esempio che non vuole bene a sua madre. Entrambe le esperienze sono bisognose di linguaggi come diceva Giovanna Zoboli, per questo solo in apparenza sono diverse.
Le relatrici hanno raccontato molto e letto brani, passaggi, portato riflessioni ricche e personali: dentro ciascun racconto c’erano piccole luci che mi hanno dato coraggio: un papà che regala Gita al Faro, una lettera scritta che aspetta una risposta, parole che rispondono alla domanda: perché leggo?
Queste piccole luci sono i pensieri che abbiamo per gli altri. Pensieri trasformati in parole a forma di libro, a forma di lettera, a forma di foglio protocollo. Le parole che ci sono dentro sono tutte parole che nascono da una relazione, ne sono sostenute, per questo sono vere e giuste. La relazione con i ragazzi non la puoi fingere o inventare. Non si può mentire o camuffare. Perché loro se ne accorgono.
Se lo stare dentro la parola da parte dell’insegnante, del genitore, dell’editore è qualcosa di vero, allora quella parola funzionerà, riceverà una risposta. Avrà un’eco che gli somiglia.
Come le parole degli alunni di Lisa che in un certo senso sembravano scritte da lei. Non perché gliele abbia inculcate o le abbia pretese, ma per una grande lavoro di presenza e affinità che ha sempre portato avanti.
Ecco l’avvio della responsabilità adulta, l’esercizio di verità rispetto alle nostre scelte, alle nostre passioni quando siamo in classe. È un esercizio che piace molto ai bambini, ai ragazzi, perché ne scorgono la fiducia che vi riponiamo. Bisogna cercare di farlo ogni giorno anche quando la paura del fallimento è dietro l’angolo. Provare a dirsi: “Oggi leggerò questa poesia, forse è difficile, però vediamo cosa succede” oppure “Questo libro mi fa pensare a quella bambina, provo a regalarglielo, magari da grande capirà” come è successo a Silvia Vecchini con la sua maestra. Non sono gesti da poco, anche se potrebbero sembrarlo. Sono scelte di relazione. È sempre la relazione che dà forma al linguaggio, al rapporto con esso. E lo sostiene in tutte le attività e le proposte a cui possiamo dar vita. La risposta c’è, esiste, anche se non la vediamo subito, anche se delle volte arriva tardi. Oppure emerge all’improvviso, come è successo a Mario, uno dei ragazzi di Chance di cui ci racconta Carla Melazzini:
“La didattica della parola è dunque un processo lento, che non può non partire dalla persona dell’alunno, e non può essere ripresentata come acquisizione di un’abilità tecnica: così non ha mai funzionato. Il valore intrinseco della parola, della scrittura in particolare, si afferma attraverso ripetute esperienze in cui essa si dimostri supporto utile o insostituibile oppure gioco; fino a rivelare i suoi segreti più preziosi. L’altro anno, quando i ragazzi facevano laboratorio artistico, mi sedevo al loro fianco e mi facevo raccontare ciò che stavano facendo, trascrivevo, e come sempre, restituivo. Il gesto attraverso il passaggio della voce, veniva tradotto in scrittura, con loro grande soddisfazione.
Mario, un prosaico venditore di articoli casalinghi, fece un collage di soggetto marino. Dopo averglielo fatto descrivere gli chiesi di trovare un titolo.
Mario propone “il mare azzurro” ma non lo soddisfa; si concentra, riflette, e tira fuori “l’azzurro del mare”. Immediatamente si illumina tutto, grida “uè, è ’a cosa chiù bella c’aggia fatto in tutta ’a vita mia!”. Perché tanto entusiasmo? Rielaborando mentalmente il suo lavoro, Mario ha spontaneamente attuato il procedimento retorico, caro ai poeti, della sostantivizzazione dell’aggettivo che gli ha permesso di rivelare la sua vera intenzione: rendere protagonista del suo lavoro non il mare, ma il colore. Il suo grido di giubilo comunica la sensazione di aver fatto una cosa di valore: per la prima volta in vita sua ha scoperto la forza racchiusa nella parola.”
Questo mi sono portata a casa da Ravenna: la voglia di sorvegliare quella parte di relazione e quella parte di comunicazione continuando a soffiarci sopra per non spegnerla, cercando il modo migliore per sostenerla e per farmi sostenere.
"Forse conviene, in ogni caso, indagare su annessi e connessi della lettura: leggere non è soltanto leggere un testo, decifrare dei segni, percorrere su e giù delle linee, esplorare delle pagine, chiarire un senso; non è solo la comunione astratta dell’autore e del lettore, il mistico connubio dell’Idea e dell’Orecchio; è, nello stesso tempo, il rumore del metrò, o il ritmico oscillare di una carrozza ferroviaria, o il calore del sole su una spiaggia e le grida dei bambini che giocano un po’ più in là, o la sensazione dell’acqua calda nella vasca, o l’attesa del sonno…" (Leggere, George Perec)