Primo giorno

[di Michele Longo]

Il fatto è che l’inizio della scuola è meno emozionante della fine. Dev’essere un fatto di poteri. Verso la fine dell’anno scolastico capita che io senta in mano i superpoteri della maestra nella forma di un oggetto rotondo composto da un nucleo di delirio avvolto da sbrendoli di realtà, o viceversa, ma dubito. È un delirio dove i bambini sono i Wiener Philarmoniker e io un direttore d’orchestra, di solito Carlos Kleiber. E andiamo tutti insieme verso il finale, al galoppo, per una volta in groppa al cavallo del tempo e non sotto la pancia, o strisciando per terra aggrappati alla coda; andiamo volando ben accordati e tutti sappiamo la via -  ma io un po’ di più -  fino a quel punto dove posso lasciare la bacchetta, appoggiarmi alla ringhiera del podio e addirittura incrociare le braccia, guardarli e ascoltarli, mentre liberano un accordo immenso, dissonante, incasinato, pieno, bellissimo.

L’inizio è tutta un’altra faccenda. Quando la scuola comincia a finire siamo tutti lì; prima dell’inizio, ciascuno a casa propria. Mi domando se la miscela di sentimenti alla vigilia del primo giorno abbia qualche componente in comune, a un capo e all’altro dell’asimmetria. Un certo eccitato fermento, immagino, all’ora della buonanotte, nelle camerette che sarei curioso di vedere. Qui, all’ora del “tanto si dorme sempre poco e male la notte prima”, il fermento potrebbe esserci, ma il suo lieve aroma di pasta lievitata è coperto dai sentori di catrame dell’ansia. Ma cosa ansii a fare, Michelelongo, alla tua età, alla tua anzianità di servizio? Eh, boh… Me lo spiega C. il giorno dopo, in un messaggio pomeridiano: «Allora com’è andata? Sei ancora capace?» «Pare di sì».

Primo giorno di scuola in Scozia, 1950.

All’inizio ho appena un pizzico di poteri della maestra, e nessun oggetto delirante in mano. Il che è senz’altro un vantaggio, per cominciare a capirci qualcosa. L’inizio è diffuso e puntiforme. Raccolgo briciole, rinuncio al puzzle. Siamo in un’aula nuova, promossi al secondo piano.  Vincenzo arriva in ritardo con l’aria provata e spavalda dell’esploratore, e ci trova già seduti in cerchio per la lettura. Vincenzo conosce benissimo tutta la scuola per le sue esigenze di passeggiate extracurricolari e non credo affatto che si sia perso, come dice la vox populi dei compagni. Ha incominciato il nuovo anno dalla A di Amundsen, semplicemente. I primi giorni sono una specie di appello senza chiamata: ogni bambina e bambino trova il suo momento per dire in qualche modo «Ci sono!» e prendere una posizione di partenza: Io comincio così.

«Leggiamo una fiaba italiana di Calvino. Ne volete una che fa un po’ paura o due corte che fanno un po’ ridere?».  Strepiti dai banchi, urla di «Paura! Paura!» «Si fa così, si fa? Così vi ho insegnato?» tuono, provando la voce da scuola. «E allora?» «Allora votiamo!». Paura all’unanimità. «Scary» fa Tommaso, con l’espressione compunta del cancelliere, «Eh?» «Scary, maestro» «Wow and very good indeed, Tommaso!». Eccolo qui: Presente, ci sono! Comincio in inglese, se a voi non spiace. Tommaso, che è sempre l’ultimo e il lento. Ho scelto Il principe canarino come prima lettura perché mi piacciono da morire gli spilloni nascosti nel cuscino e perché è una fiaba abbastanza lunga e complessa. (Il libro è L’uccel Belverde e altre fiabe italiane di Italo Calvino, Oscar Junior). «Il faut risquer» pare scrivesse il virtuoso del violino Wieniawsky nei suoi spartiti, sopra certi passaggi difficilissimi e potenzialmente catastrofici. Ma davvero a scuola credo che ogni tanto si possa rischiare, proporre cose difficili senza la certezza del risultato, la solidità del percorso graduale, che forse sono altri oggetti col nucleo delirante e gli sbrendoli di realtà, alla fine. Mi fermo nei punti chiave del Principe per essere sicuro che ci siamo tutti, chiedo di spiegare, riprendo fiato. «Chi ci aiuta a ricordare cos’è una matrigna?». Ludovica alza la mano battendo sul tempo anche se stessa: «La matrigna, la matrigna… è Cenerentola!». Ohi-ohi-ohi, gemo silenziosamente, ma non ho ancora finito di dire «Mettiamo in ordine le parole nella testa prima di parlare» che Ludovica, trovato il binario, mi interrompe con una spiegazione chiarissima della matrigna e dei suoi rapporti usuali con i figli di primo letto. Ci sono anch’io eh! Vedi maestro che non mi perdo via come l’anno scorso?.

Lungo la fiaba sono molti altri a scattare all’appello inaudibile e prendere posizione per l’anno nuovo, la terza.

Primo giorno di scuola a New York, 1950.

Poi correggo i quaderni dove abbiamo scritto Il giuramento dell’amicizia di Tognolini, attività di accoglienza concordata con le colleghe che mi piace, anche se ho deciso che un pomeriggio andremo tutti insieme ad aprire la porta della stanza dell’amicizia, quella che Barbablù Pedagogico ci ha fatto promettere di non aprire mai, e guarderemo dentro con una torcia, per fare scoperte e distinzioni. Tipo la distinzione tra amici e buoni compagni. Correggo per la prima volta sulle righe di terza, e intanto mando in bagno chi deve andare, mando a cercare chi è andato e non torna più, raccolgo le deleghe alle tate, ai tati (sic), alle nonne e ai nonni (mai abbastanza ringraziati!)  per il "ritiro" dei bambini, scrivo messaggi sui diari con le specifiche dell’album a quadretti non a riquadri. Pietro arriva col quaderno e proclama sorridendo con gli occhi che gli dispiace, ma non sa più scrivere, in terza non scriverà. Pietro è bravissimo, e avere una grafia non del tutto sciolta e gradevole gli scoccia parecchio. Io penso incidentalmente agli indimenticabili Malfatti di Beatrice Alemagna che abbiamo letto in prima e anche in seconda, al loro trionfo finale sul Perfetto; penso che stare nell’area del Perfetto, a otto anni, è scomodo. Ehi ci sono anch’io! Quest’anno non so scrivere e ho portato il naso di Pinocchio! (Il libro è I cinque Malfatti di Beatrice Alemagna, Topipittori).

Primo giorno di scuola ad Aurora, Colorado, 1987.

Arriva Alessia con il diario che le ho chiesto un quarto d’ora fa. Se c’è una cosa che detesto sono i diari scolastici valevoli per qualunque anno, quelli che su ogni pagina portano il mese, il numero, e la sfilza dei giorni della settimana da crocettare: mi danno un senso di impotenza esasperante come la combutta degli username e delle password che dimentico in continuazione. Poi dico, o creatori e designer di diari per la scuola primaria, nell’epoca dell’obsolescenza programmata, proprio il diario lanciato sull’eterno dovevate inventare, che già i bambini fanno fatica a orientarsi nella settimana? Inizio a scrivere sul diario di Alessia «Prego di contrassegnare i giorni della settimana fino alla fine dell’anno scolastico, per…» «Maestro» «Un attimo Aglaia, sto scrivendo!» «Maestro!» «Oh insomma Aglaia, posso finire di scrivere, o è una questione di vita o di morte?».

Osservando la maestra in una scuola di Harlem, New York, 1948.

Mentre gratto il pennino della stilografica sulla carta color unicorno non manco di meravigliarmi di Aglaia, una bambina così matura, non certo il tipo da interrompermi con insistenza per un nonnulla mentre scrivo «per facilitare l’uso del diario alla bambina e ai docenti». «Maestro oggi è il 12 settembre, tu hai scritto sulla pagina del 16». Controllo l’orologio, controllo il diario, è vero. «Ho cercato di dirtelo ma non mi ascoltavi» «Non ti ascoltavo perché dovevo finire a tutti i costi di scrivere sulla pagina sbagliata, Aglaia». Ridiamo.

Eccomi. È cominciata la terza e ci sono anch’io. Nel flusso delle dimenticanze e degli smarrimenti a venire vorrei ricordarmi che ogni giorno, a scuola, può essere un primo giorno, per qualcuno.

Primo giorno di scuola a Berkeley, California, 1968.

Tutte le fotografie che accompagnano il post sono tratte da questo articolo.