[di Rita Gamberini]
Chiudi gli occhi e apri la bocca: come quando ti offrono qualche leccornia l’effetto sorpresa amplifica la dolcezza al palato e assaggi qualcosa di veramente buono. Tutti in fila bambine e bambini aspettavano il loro turno, uno alla volta, per mandare giù una zolletta di zucchero macchiata di rosa: il vaccino Sabin contro la poliomielite. Era il 1964, io avevo dieci anni quando in Italia prese il via un grandissimo programma di vaccinazione per combattere una malattia che provocava ogni anno circa tremila casi di grave invalidità e che solo pochi anni prima, nel 1958, aveva reso invalide ben ottomilacinquecento persone.
Ricordo molto bene: capitava che si incontrasse per strada qualcuno zoppicante, era il minimo che poteva accadere se ti beccavi quella temibile malattia che ti segnava per sempre; «ha preso la polio» si diceva con voce sommessa, quasi che bisognasse stare alla larga. Adesso che alla larga ci dobbiamo stare tutti, lontani almeno un metro, e siamo chiusi in casa, passando da un’attività all’altra, riapro quei pochi vecchi quaderni delle elementari che ho conservato, li sfoglio e per lo più sorrido.
Sapere - Quaderno di divulgazione scientifica e tecnica, proprietà artistica e letteraria riservata della Rivista Sapere (Editore Ulrico Hoepli per concessione alle Cartiere Paolo Pigna S.p.A.).
Non so bene come siano adesso le copertine dei quaderni di scuola, ma questa mi colpisce. Istruttiva? Formativa? Divulgazione scientifica, proprio ora che pendiamo tutti dalle labbra della scienza a cui chiediamo, anzi esigiamo, soccorso in un momento così delicato e disperante.
Proprio tra le pagine di questo quaderno trovo un volantino che evidentemente distribuivano a scuola: Giornata mondiale della sanità, 1964 - XXVII campagna nazionale antitubercolare.
Che dire? Carta sottilissima, ormai ingiallita (quasi a ricordare paradossalmente vecchi volantini di lotta politica extraparlamentare degli anni ’70), un appello affinchè «ogni cittadino, affiancando l’opera dello Stato e della Scienza, acquisisca una salda coscienza sanitaria per eliminare i fattori che favoriscono l’insorgenza della malattia, utilizzi avvedutamente le risorse sanitarie che sono a disposizione dell’intera collettività nazionale, contribuisca con generoso slancio di umana solidarietà all’assistenza sanitaria-sociale dei nuclei familiari colpiti dalla malattia».
A Gaiato, una frazione del paese dell’Appennino Modenese dove sono nata, ricca di folte pinete e aria buona, una struttura adibita a sanatorio ospitava i malati di tubercolosi, di cui si diceva «hanno la tisi, il mal sottile», e anche da lì bisognava stare alla larga.
Anche oggi dobbiamo affiancare Stato e Scienza e attuare un responsabile distanziamento sociale.
Sospendo un momento la scrittura, vado allo specchio, mi scopro il braccio sinistro e cerco i segni di un’altra vaccinazione di cui ho memoria, quella contro il vaiolo che mi è stata somministrata con un ago particolare, una specie di pennino che ha scritto sulla mia pelle l’avvenuta immunizzazione. Eccole ancora lì, due piccole cicatrici irregolari, uno scarabocchio.