[di Letizia Soriano]
Ho sempre pensato che si potesse fare scuola in un modo solo. Che le mie idee e le metodologie che ho imparato a utilizzare fossero quelle più giuste. Per un insegnante non ci sono molte possibilità di scambio con l’esterno. Il cambiamento accade quando c’è un trasferimento e si è in qualche modo costretti ad avere a che fare con nuovi stili educativi e didattici. Questo perché ogni scuola, nella maggior parte dei casi, è un microcosmo che funziona in maniera autonoma. Gettare uno sguardo fuori, invece, è importantissimo oltre che molto arricchente. Finché la mia situazione famigliare lo ha permesso, ho viaggiato nel mondo per lavorare nelle scuole più disparate: Perù, India, Madagascar, Palestina. Ogni volta tornavo a casa diversa, ogni volta c’era da mettere in discussione il mio lavoro di prima. Sono stati anni di formazione bellissimi. Adesso non riesco più a viaggiare, ma la voglia e la necessità di guardare fuori mi sono rimaste. I film, i documentari che parlano di scuola mi hanno offerto questa possibilità.
Girare un film sulla scuola, credo sia molto difficile. Riprendere i bambini, che spesso sono inafferrabili per quanto sono in movimento, riuscire a restituire il loro sguardo, il loro sentire, la trovo un’impresa titanica. Eppure in molti ci riescono e, grazie al loro lavoro, creano ponti tra le varie esperienze di scuola. Senza saperlo vanno a integrare sia le esperienze simili, sia quelle molto diverse tra loro. Mi dispiace molto, invece, quando mi capita di guardare film in cui la scuola appare come un’istituzione stereotipata: compiti, lezioni, interrogazioni, voti. Dove la presenza dei bambini, dei ragazzi, è solo un tramite per ottemperare a tutti i doveri burocratici che conosciamo. Narrazioni del genere vanno a semplificare, per non dire banalizzare, tutta quella parte di vissuto, di formazione della persona, che a scuola esiste ed esisterà sempre. Assieme al valore delle relazioni che si creano nel gruppo (e che spesso vanno al di là delle parole e delle diversità esistenti), nonché all’importanza degli ambienti che diventano spesso luoghi famigliari, quasi domestici, in cui i bambini vivono per tante ore al giorno.
Da sinistra a destra: Être et Avoir (Nicolas Philibert, 2002); Lunana: A Yak in the Classroom (Pawo Choyning Dorji, 2019); Il Cerchio (Sophie Chiarello, 2022); Una storia Valdese (Salvo Cuccia, 2020); El maestro que prometió el mar (Patricia Font, 2023)
Nel film francese Être et Avoir (Essere e Avere) il regista Nicolas Philibert si trova dentro una classe molto particolare in cui un maestro ospita, tutti insieme, bambini di età compresa tra i 4 e gli 11 anni. È una pluriclasse di un paesino di allevatori e agricoltori, al centro della Francia. Il maestro non ha una cattedra, sarebbe impossibile usarla, ma si sposta in continuazione per seguire ciascuno dei suoi alunni, si siede vicino e tutti sanno che per essere aiutati devono aspettare il loro turno. Nel frattempo chi non è impegnato nella lezione disegna e parla sottovoce.
Immagine tratta dal film Être et Avoir (Nicolas Philibert, 2002)
È un film all’apparenza molto semplice, dove succedono poche cose e nessuna di queste vuole apparire fenomenale. Non ci sono progetti stratosferici, didattiche particolari, colpi di scena pedagogici. Ci sono invece i dettati, i disegni da colorare, le mani sporche di pennarello, i numeri, la grammatica, un pulmino che in mezzo alla neve, ogni mattina, porta i bambini nella loro piccola scuola dove c’è il tecnico della fotocopiatrice che smonta e rimonta i pezzi. Ci sono poi le parole che il maestro dice ai suoi alunni. Ogni cosa viene raccontata per come è, senza tanti giri di parole, ma sempre con gentilezza, semplicità, cognizione di causa. Si vede che il maestro tiene realmente al percorso dei bambini, soprattutto quello dei ragazzi più grandi che presto andranno alle scuole medie. Riesce a dialogare con loro e con le famiglie senza la retorica delle frasi fatte, senza mai dire la frustrazione di dover far fronte a una classe così variegata, in un contesto tanto particolare. Situazione che manderebbe nel panico chiunque. Raggiungere quel tipo di presenza composta, che a una prima occhiata può apparire come freddezza e distacco, è invece un lavoro gigantesco che andrebbe fatto sempre. Molto più semplice perdersi nei meandri dell’emotività che lo stare a scuola, inevitabilmente, ci provoca. Quindi questo film è soprattutto un promemoria.
Immagine tratta dal film Être et Avoir (Nicolas Philibert, 2002)
In Lunana accade un po’ la stessa cosa. Si vede, giorno per giorno, il rapporto che un giovane maestro, all’inizio molto restìo nei confronti dell’insegnamento, riesce a instaurare con i bambini di un villaggio sperduto del Bhutan. Per arrivarci servono otto giorni di cammino, ma alla fine del percorso ciascuno degli abitanti lo accoglie come una presenza realmente significativa: finalmente i bambini del villaggio potranno avere un’istruzione.
Immagine tratta dal film Lunana: A Yak in the Classroom (Pawo Choyning Dorji, 2019)
Il lavoro non è facile. Nella classe non ci sono quaderni, non c’è gesso, non c’è lavagna. La carta è una preziosità. Tutto è accompagnato dal rumore del vento che entra imperterrito dalle finestre dell’aula spoglia. Ma, giorno dopo giorno, i bambini riescono a riscaldare quella stanza, con i loro pensieri, con le loro parole, con la loro presenza (e con quella del meraviglioso yak Norbu). Spazzano via tutte le paure del maestro di non essere all’altezza, anche in mezzo alle peggiori situazioni. Gli ricordano che il suo è un lavoro importante, grazie al quale può “toccare il futuro”, e ciò significa anche ridere, imparare e cantare insieme. Il canto per gli abitanti di Lunana è sacro, un’offerta all’universo. A poco a poco, la serenità e l’immensa forza spirituale del luogo contagiano il maestro che sente di essere accolto in una comunità unica dove è ritenuto sia dai bambini sia dalle famiglie una presenza fondamentale per la costruzione del proprio futuro.
Immagini tratte dal film Lunana: A Yak in the Classroom (Pawo Choyning Dorji, 2019)
Se in Lunana e in Essere e Avere ritroviamo uno stare a scuola fatto di piccoli gesti e rituali significativi, nel documentario Il Cerchio di Sophie Chiarello abbiamo la possibilità di sentire le voci, sia individuali sia collettive, di un intero gruppo classe.
Immagine tratta dal film Il Cerchio (Sophie Chiarello, 2022)
La regista frequenta la classe in cui girerà il suo documentario per cinque anni, dalla prima alla quinta primaria, per un totale di duecentocinquanta ore di girato. I bambini vengono ascoltati e sollecitati verso alcune riflessioni portate dai compagni, parlano liberamente, si interrogano e si confrontano su diversi temi: il mondo adulto, i migranti, l’importanza di avere un lavoro, l’esistenza o meno di Babbo Natale.
Immagini tratte dal film Il cerchio (Sophie Chiarello, 2022)
Sophie Chiarello si muove all’interno della classe come un’interlocutrice che stimola, ma allo stesso tempo anche come figura affettiva. Osserva la crescita di ciascuno all’interno del cerchio, una pratica educativa dentro la quale è possibile uno scambio paritario, in assenza di giudizio. All’inizio del quinto anno vediamo questi bambini diventare ragazzi, ascoltiamo i loro pensieri e le loro intuizioni divenire ragionamenti sempre più articolati, e non ci accorgiamo di essere piombati nel 2020. Nell’anno della pandemia non esiste più la possibilità di trovarsi insieme a scuola. Allora la regista fa una cosa bellissima. Va a casa di ciascun ragazzo per vederlo, salutarlo e ascoltarlo. L’isolamento è come un ponte tra il prima e il dopo. La classe in qualche modo si riunisce attraverso questa ricerca della regista.
Immagine tratta dal film Il Cerchio (Sophie Chiarello, 2022)
La stessa cosa decide di farla Gustavo Alabìso quando si immagina di girare il docu-film Una storia Valdese. Alabìso è un fotografo che vive in Germania. Da bambino ha frequentato la scuola del Monte degli Ulivi di Riesi, fondata negli anni Sessanta da Tullio Vinay (pastore valdese, teologo e senatore della Repubblica). L’esperienza vissuta in Sicilia lo porta a voler rintracciare, dopo quasi cinquant’anni, i suoi compagni di studi, in giro per l'Italia e per l'Europa. Per riuscire a trovarli, però, ha bisogno di un documento fondamentale: il vecchio registro di classe. Molti di loro sono emigrati in Belgio e in Germania, qualcuno invece è rimasto in Sicilia. Nel ritrovarli li intervista, chiedendo loro di raccontare l’esperienza vissuta nella scuola valdese.
Immagini tratte dal film Una storia Valdese (Salvo Cuccia, 2020)
Attraverso queste interviste si riesce a scorgere un pezzo di storia della scuola italiana con i primi esperimenti di tempo pieno e l'impegno assunto dalla comunità valdese di portare via quei bambini dalla strada per il maggior tempo possibile. Nel documentario, le riprese sono montate tra passato e presente. Quelle degli anni Settanta, in particolare, mi hanno incuriosita. Presto mi sono accorta che molte delle attività di quegli anni avevano diverse caratteristiche in comune con l’attivismo pedagogico di Célestin Freinet (fondatore della pedagogia popolare, promotore della scuola attiva e dell’educazione nuova). Tra queste: il giornalino di classe, il complessino tipografico, il lavoro manuale, i testi liberi… Così, in preda a uno dei miei entusiasmi, ho scritto al regista per chiedergli se ricordava qualcosa di più dettagliato di quella scuola, in particolare sulle metodologie utilizzate. Gustavo si è subito dimostrato disponibile e mi ha messa in contatto con due delle sue maestre, tra cui la maestra Helene, una signora novantenne che vive in Svizzera e che, in uno scambio di mail, mi ha confermato di essersi formata nelle scuole Freinet e Montessori di Zurigo, raccontandomi del suo percorso di studi. La contentezza che mi ha regalato questa piccola corrispondenza è stata grande. Con l’altra maestra, invece, non sono riuscita a mettermi in contatto. Mi ha risposto suo figlio, dicendomi che la madre, assai anziana, non riusciva a ricordare nulla. Avrei voluto sapere altro sulle commistioni didattiche, sulle metodologie, mi piacerebbe avviare una ricerca per capire in che modo e quanto quel tipo di educazione possa avere inciso sulla mentalità della popolazione di un paese così piccolo della Sicilia. Spero di riuscire a farlo, un giorno.
Immagine tratta dal film Una storia Valdese (Salvo Cuccia, 2020)
Sul movimento delle scuole Freinet, lo scorso settembre, è uscito un film dal titolo Il maestro che promise il mare. La storia vera di Antoni Benaiges, un insegnante di Tarragona che prima della Guerra Civile fu assegnato alla scuola di Bañuelos de Bureba, una piccola cittadina della provincia di Burgos. Qui il giovane maestro riuscì a instaurare un legame molto profondo con i suoi alunni: bambini tra i sei e i dodici anni, i quali erano chiamati non solo a imparare a leggere, scrivere e a contare, ma soprattutto a esprimere tutto il loro potenziale attraverso un coinvolgimento attivo. Ma queste modalità d’insegnamento (basate appunto sul metodo del pedagogista Célestin Freinet) non incontrarono il consenso di alcuni genitori, della Curia e, soprattutto, dell’incombente regime franchista, che si oppose con forza agli ideali dell’insegnante.
Immagine tratta dal film El maestro que prometió el mar (Patricia Font, 2023)
Il film è ambientato nel 1935, è una storia vera ricostruita, settantacinque anni dopo, grazie alla nipote di uno di quegli studenti.
Immagine tratta dal film El maestro que prometió el mar (Patricia Font, 2023)
Il maestro catalano Antoni Benaiges nella scuola rurale di Bañuelos de Bureba (Burgos), aprile 1936
Qualche anno più tardi (e questo è un racconto dentro il racconto) nel 1938, una pedagogista svizzera di nome Margherita Zoebeli si recò in Spagna durante la guerra civile come responsabile di una casa in cui erano ospiti cento bambini orfani, figli di profughi repubblicani. Dopo poche settimane dal suo arrivo, visto il precipitare degli avvenimenti bellici e i continui bombardamenti alla città, decise di organizzare un trasporto attraverso i Pirenei per portare con sé i bambini, in Francia, in una colonia sulla spiaggia di Sète; qui conobbe Célestin Freinet. Fu anche grazie a questo incontro che Margherita Zoebeli, qualche anno più tardi, arrivò a Rimini con lo stesso scopo: aiutare i bambini orfani di guerra. Nacque così il Centro Educativo Italo Svizzero dove il pensiero pedagogico di Célestin Freinet è ben visibile ancora oggi.
Ma questa è una storia che ho già raccontato.