Una manciata di tenerezza

Nota a margine di Poesie della casetta di Rita Gamberini

[di Paolo Donini]

…La vita che sembrava

vasta è più breve del tuo fazzoletto


E. Montale, Le occasioni

Fra te e il mondo preferisci il mondo.

Questa frase, tolta da una pagina di Kafka, viene inserita da Antonella Anedda in epigrafe a una poesia della sequenza Cori, nella raccolta Dal balcone del corpo (Anedda per l’esattezza utilizza: scegli ma noi qui optiamo per un più premiale: preferisci).

L’aria è piena di grida è il titolo della poesia di Anedda che più oltre si interroga:

Cosa rende alcuni più crudeli di altri?

Forse un difetto di immaginazione.

Fra te e il mondo preferisci il mondo. L’indicazione dovrebbe essere stampigliata a lettere rilevate su una tessera magnetica e così spedita all’indirizzo di ciascun residente sul territorio nazionale a cura del governo, come il codice fiscale, rappresentando, nella sua assertiva concisione un completo codice esistenziale, il viatico ecologista per eccellenza.

Prescrive infatti che il soggetto sappia farsi da parte per dare spazio all’altro da sé; basterebbe allora obbligare ex lege la popolazione, dall’atto del ricevimento della tessera con raccomandata, ad applicare la locuzione con scrupolo coerente e integrale, per giungere al disarmo, realizzare la non violenza, salvare la natura.

Quasi nessuno lo fa, però, di preferire a sé il mondo. Tranne – i poeti.

La poesia è in nuce: preferire il mondo, dandogli ciò che non ha: parola.

E dare parola sembra essere l’esito più convincente di una frugale e incantevole raccolta composta da Rita Gamberini, Poesie della casetta, per Topipittori, con le freschissime illustrazioni di Irene Penazzi, che hanno il sapore frammisto e spezzato dell’erba dopo la pioggia, delle foglie marcite, delle campagne tra filari pervasi di voli, di raggi, di api, di campi e zolle offerti nella diluizione di un paesaggio scarruffato, privo di amenità turistiche, bello per povertà, lavoro, disordine e abbandono.

Azzardiamo che i migliori libri di poesia siano libri per bambini travestiti da libri per grandi, nel senso che per leggerli bisogna farsi piccoli, fidarsi e lasciarsi condurre per mano; i poeti amati sono sempre grandi e il loro lettore, piccolo; sono padri, madri, fratelli e sorelle maggiori, amici, amiche  e conoscenti leggendari, ammirati, intimi e imitati.

Nel nostro caso abbiamo, però, un libro per grandi travestito da libro per bambini, nel senso che per leggerlo ecco che ci disponiamo, con qualche sospetto e scricchiolio, a chinarci come su un breve cosmo concluso, per sorprenderci invece di ritrovarci a una congrua altezza, a un’altezza umana, da cui queste “poesiole”, come ama chiamarle l’autrice, ci impongono di rivedere le cose, di riascoltarle.

Nel mondo della casetta vige la regola di essere piccoli, tutto è minuto, parco, essenziale, povero, scassato. La topografia è marginale, confinaria, isolata. L’accesso alla proprietà è scomodo, ci informa l’autrice, e l’avventura che porta fin nell’aia è essa stessa minuscola, un rotto cammino tra i sassi. Eppure in questa selvatichezza tascabile ogni cosa è sospinta fuori dall’ordinario e la piccolezza trapela nella magia.

Qui ogni cosa ascolta, parlotta, esclama, risponde.

È proprio dei bambini piccoli, verso i due, tre anni il gusto di perlustrare il mondo con quel divertito animismo pronto a interpellare piante, oggetti, animali come propri simili, interrogandoli e conferendo loro sensibilità e parola, in una plurima restituzione a cui l’adulto guarda come a un film muto, mentre il bambino la svolge immerso negli innumerevoli conversari del suo lallare, entro la solitudine più affollata e discorsiva che si possa immaginare.

L’autrice della nostra raccoltina sembra avere riorganizzato ai propri fini questa propensione infantile a dare vita e amistà alle cose, a perdersi nel bicchier d’acqua dei cieli mattutini, raccogliendo un universo nel metro quadrato del cortile, dedicandosi, come scrive, a parlare con tutto.

Nel controluce di queste scritture magre (ma non ossute), si scorgono allora brandelli prestigiosi: le Myricae pascoliane mescolate agli “ahi!” del pezzo di legno di Geppetto, alla fatata interlocuzione della ninfa Versilia nell’Alcyone:

Sapevi tu tanto sagaci

nari, o uomo, in legno sì grezzo?


rimpiccioliti e rivisti in una disposizione balzana (della stramberia un po’ burbera dei solitari) quanto ospitale, sagace dove la letterarietà del testo si affaccia pericolante all’occasionalità dell’appunto, del bigliettino appiccicato alla porta con su scritto di non dimenticare la dolcezza di vivere, meglio se di poco.

Ci vogliono occhi grandi per vedere in questo modo, gli occhi grandi e tersi dei bambini farebbero al caso e la loro serietà, la loro microscopica professionalità, per attendere con sobria devozione la nascita delle verdure invernali, per accogliere degnamente, come la più illustre delle visite di rito, il passaggio regale di un rospo tra le foglie secche. Non fosse che a scrivere qui non è una bambina, eppure quegli occhi ce li ha.

Dove li ha presi? Perché, invece di farli sottili e fendenti, ne ha difeso fin qui e non per sé il candore, la generosità?

Non è fuori dal mondo del resto la casetta, per quanto esiliata, tra gli animalini e le seggiole con cui chiacchierare, le mele renette e tanto (tutto) da mettere in salvo, e il buffo cane dal nome western: Billy, sdraiato alla soglia.

Con civica grazia puntellata da irrinunciabile vocazione politica l’autrice infatti non intende consegnare la sua magica miniatura all’irrealtà dell’utopia e neppure alla nobiltà del distacco. La estrae da ogni sospetto di aristocrazia campestre per collocarla invece a margine del bosco da un lato, dove comincia la fiaba, ma a ridosso delle statali, tra cieli solcati da aerei, dall’altro, là dove si avverte già il fragore del mondo dilaniato.

Ed è qui che la raccoltina riunisce e attiva il suo segreto impianto pedagogico, la sua leva etica, quando la sbriciolata pratica delle parole rivolte a ogni minima e umile cosa, da una umile e dedita persona, diviene il manifesto efficace della vita pacifica, l’invito a sapersi piccoli come effettivamente siamo.

E non altrove ma qui, adesso, dove tutto sta di nuovo inferocendo, riprendere a abitare pacatamente il mondo e tra noi scambiarci semmai e non altro – vi preghiamo, non altro –  che una manciata di tenerezza.

Gran parte delle immagini di questo articolo si riferiscono a studi realizzati per il libro da Irene Penazzi in corso d'opera.