Una protesta dall'infanzia

[di Rita Gamberini]

Da qualche giorno sono in vena di protestare, e lo farò prendendo a pretesto antiche vicende della mia vita scolastica che sono riaffiorate insieme a vecchie pagelle e ad alcuni quaderni, scrupolosamente conservati dalla mia avveduta sorella. Tanto per cominciare, la mia contestazione, che, diciamolo subito, sarà futile, oziosa e infruttuosa, si avvale di documenti autentici, come si conviene a un vero contestatore.

Eccone uno: terminata la quinta elementare (1965), sul libretto scolastico, che viene rilasciato a compimento del ciclo di studi, leggo che sono una «alunna intelligente e volonterosa». Un anno dopo, conclusa la prima media, questo il profitto: «Ha dimostrato buona volontà e discreto interesse agli studi. Incontra qualche difficoltà in matematica». Ma come si può mettere nero su bianco la mia buona volontà e subito dopo cancellarla con un tratto di penna? Delle difficoltà in matematica dirò poi.

Eccone un altro, da un quaderno della quarta elementare: tema La mia scuola. Termino il componimento, come si chiamava all’epoca, scrivendo «Io amo la mia scuola, perché so che è mio dovere»; la maestra cancella  «perché so che è mio dovere» e corregge in rosso: «Io amo la mia scuola e tutti i miei superiori». Roba da matti! Va bene, va bene, amare per dovere può essere discutibile, ma amare i superiori non è molto credibile.

Protesto perché mi hanno fatto scrivere che «la Madonna è la sola creatura nata senza peccato originale e che pur non essendo Santi come lei, la dovremo imitare». Per non parlare della cronaca di una mattina in cui il signor Arciprete è venuto in classe a mostrarci alcuni filmini sull’Immacolata Concezione che ho così descritto: «Le filmine rappresentavano quando Dio ha creato il mondo e l’uomo e quando Adamo ed Eva hanno commesso il peccato, costrinti dal diavolo che era entrato nel corpo del serpente». Molto dubbiosa sull’attendibilità di un siffatto fenomeno, un giorno, con timoroso ardire, chiesi alla mia amica del cuore se pensava che Adamo ed Eva fossero esisiti davvero. Pensammo che non c’erano le prove, un fenomeno non è forse qualsiasi cosa suscettibile di osservazione scientifica? In ogni caso alle elementari abbiamo pregato tantissimo per tantissime ragioni e, sorvolando su queste tardive proteste, lo feci sempre con un certo convincimento.

Mi resta da togliere un ultimo fastidioso sassolino dalla scarpa: nel libretto scolastico per due anni consecutivi si attesta che l’alunna «non ha rivelato particolari attitudini». Questa se la potevano risparmiare: oggi mi sembra avvilente. Avrebbero ben potuto concepire qualcosa di lusinghiero a mo’ di incoraggiamento, non so, suscitare in me qualche motivazone, invece di indurmi a congetturare un futuro di improbabili successi.

Ma veniamo ora alle mie difficoltà in matematica, qui non c’è proprio nulla da contestare, non ero dotata del famoso bernoccolo, e questo, secondo quanto teorizzato tra il 1700 e il 1800 dal medico tedesco Franz Joseph Gall, era la dimostrazione che sulla mia testolina non si potevano osservare particolari protuberanze craniche a suffragio di spiccate facoltà intellettive. In prima media prendevo la sufficienza per il rotto della cuffia, così per alcuni mesi andai a lezione privata di matematica da un’anziana professoressa in pensione, la Signorina R. Fu un periodo molto strano perché la Signorina abitava in un vecchio appartamento con suo fratello, un uomo inquietante, senz’altro signorino, identico a papa Paolo VI, che mentre ero lì, china sugli esercizi più ostici del mondo, tirava senza sosta contro il muro una consunta pallina da tennis. A ogni lancio, uno strillo. La Signorina R non proferiva verbo sulla presenza del fratello, tranquilla mi dava ripetizioni come se in quella stanza fossimo noi due sole e quasi a voler condividere con lei questo segreto, a casa non raccontavo nulla. Sulla pagella avevo Sufficiente prima ed è rimasto Sufficiente poi, poteva andare molto peggio.

Comunque quando ripenso alle mie difficoltà in matematica, non posso fare a meno di sorridere ricordando che quando mi mandavano in negozio a fare qualche piccola spesa, mi impegnavo tantissimo perché volevo fare come i grandi e quando il negoziante mi chiedeva, per esempio, di pagare 95 lire io, dandogli le 100 lire, chiedevo compiaciuta e orgogliosa «Vuole le 5?». Mi rispondeva regolarmente di no e io ci rimanevo malissimo. Ma perché?