Un diario dalla periferia profonda

[di Matteo Maculotti]

Un bambino ricorda che alla fine della via, nell’erba alta di un terreno sfitto, viveva un bufalo d’acqua, un animale grande e mansueto che si svegliava solo quando qualcuno si fermava per chiedergli un consiglio. Allora, dopo essersi avvicinato lentamente, il bufalo si limitava a sollevare uno zoccolo per indicare la strada giusta, che una volta percorsa finiva sempre per rivelare delle sorprese. Come faceva a saperlo? è la domanda che ogni volta accompagnava nello stupore il bambino e i suoi amici, ma un’altra domanda, posta da un alunno non appena finisco di leggere la storia, ci offre una chiave preziosa per rileggerla in profondità: Perché i bambini smettono di andare a trovarlo?

Il narratore dice proprio così, ma non dà spiegazioni, e aggiunge che probabilmente il bufalo se n’era andato poco tempo dopo, perché quello che riuscivamo a vedere era solo l’erba alta. Una domanda irrisolta che in effetti ne contiene molte altre, e che ci porta a riflettere sul fragile incanto di questo oracolo muto. Più ancora che di magia, mi accorgo allora che questa storia parla di fiducia, di legami importanti ma precari con figure di riferimento in grado di essere guide autorevoli, e soprattutto di crescita, di tutto ciò che col passare del tempo rischia di perdersi senza la cura dell’abitudine e del ricordo. Quando ero bambino, non a caso, sono le prime parole della storia. Ma nell’infanzia lontana di questa periferia australiana, dove la memoria dell’autore accoglie in sé la più fervida immaginazione, credere alla magia significa proprio avere fiducia nel mondo, non c’è contraddizione fra realtà e fantasia, e il segreto per trovare ciò che si sta cercando potrebbe essere un piccolo gesto che precede il viaggio vero e proprio: soffermarsi sulla soglia, confidare nell’attesa. A questo punto non sono il solo a pensare che il bambino, anzi il ragazzo, dev’essersi ingannato, perché spesso le cose scompaiono nel momento in cui non siamo più capaci di riconoscerle, o disposti a concedere loro il nostro tempo. Già distratto altrove coi suoi compagni, nell’attimo di un’occhiata e senza alcuna domanda con sé, come avrebbe potuto scorgere nell’erba sempre più alta l’ombra dell’animale addormentato?

Comincia così la nostra seconda esperienza di lettura in classe, il secondo viaggio nei quindici minuti settimanali che di mercoledì in mercoledì, fra le lezioni della mattina e l’ora della mensa, sono ormai diventati un appuntamento prezioso. Nel primo quadrimestre abbiamo avviato l’esperimento con La conferenza degli uccelli di Peter Sís, ora è il turno delle Piccole storie di periferia di Shaun Tan, una raccolta di quindici brevi racconti illustrati nei quali il connubio di parole e immagini dà vita a una sorprendente varietà di soluzioni espressive, calibrate per ogni storia su stili e registri diversi. Per conservare alcune tracce di questo percorso sulle quali poter tornare anche a distanza di tempo, e per giocare a nostra volta con la generosità di un linguaggio che concede ampio spazio al respiro del non detto e alla ricerca di interpretazioni, connessioni e rivisitazioni, propongo un diario di lettura collettivo dove raccogliere commenti, parole-chiave, citazioni, disegni e quant’altro: due facciate per ciascun racconto, più la copertina che faremo alla fine, per un totale di sedici pagine di dimensioni poco inferiori al formato del libro, ricavate da buste per spedizioni (esattamente come lo sfondo dell’indice del volume, dove ogni storia è un francobollo).

Alcuni racconti si prestano molto bene ad attività di imitazione e rielaborazione, come il collage di bigliettini con cui proviamo a riassumere Pioggia distante ricreandone lo stile grafico, o i missili colorati con cui ridisegniamo il panorama di All’erta ma non allarmati, una splendida fantasia di pace che arriviamo a leggere proprio mentre attorno a noi infiamma il dibattito sulla guerra e sulla corsa agli armamenti. Di altri racconti annotiamo soprattutto le impressioni che hanno suscitato, scritte a caldo durante la discussione su foglietti che incolliamo poi una volta tornati dalla mensa, nei primi minuti dell’intervallo. È importante che queste scritture registrino il movimento del pensiero, il nascere spontaneo dell’idea, più che la sua formalizzazione in bella copia, quindi sono ben accetti anche errori di ortografia, anacoluti e sbavature. Ed è proprio l’accostamento materiale di varie scritture a rendere più pregnante ciascun contributo nel suo rapporto con gli altri, in un gioco di combinazioni e richiami che prova a conservare per iscritto ciò che nel dialogo orale è una risonanza volatile, presto dispersa al suono della campanella.

In una quarta elementare molto reattiva, che conta diversi assidui lettori, gli interventi non faticano a emergere di fronte a storie così particolari. Più volte rimaniamo colpiti dalla precisione di un dettaglio, dalla vivida ricchezza del linguaggio e dalla stranezza di certe scene. Un’alunna sottolinea con grande acume la crudeltà del gesto di una signora che non si limita a rompere i giocattoli finiti nel suo cortile, ma li taglia accuratamente a metà (Giocattoli rotti), mentre una compagna si interroga sulle motivazioni che la spingono a comportarsi così, e un’altra ancora trascrive la peculiare descrizione olfattiva che introduce il personaggio destinato a mutare il suo atteggiamento, un ragazzo vestito da palombaro che incuriosisce tutti con la sua bizzarra apparizione, da perfetto “pesce fuor d’acqua”. E un altro pesce fuor d’acqua, il dugongo, che in realtà impariamo essere un mammifero, è misteriosamente spiaggiato di fronte a una casa in una storia successiva, Risacca, che fin dal titolo ci fa aprire (anzi agguantare) il dizionario: mammifero erbivoro raro e in via di estinzione, come la quiete che un bambino di cui nessuno si accorge, comparso solo al termine della storia, ricerca disteso nell’impronta lasciata dal suo corpo.

Nessuno vide il ragazzino agguantare un’enciclopedia di zoologia marina e lasciare la porta principale di quella casa, scivolare verso la macchia a forma di dugongo e sdraiarsi nel mezzo, le braccia lungo il corpo, guardando le nuvole e le stelle, sperando che passasse molto tempo prima che i suoi genitori si accorgessero che non era nella sua camera e uscissero urlanti e arrabbiati. Come fu curioso, poi, quando alla fine comparvero entrambi senza fare rumore, con calma. Come suonava strano che tutto quello che sentì fossero mani gentili sollevarlo e trasportarlo di nuovo a letto.

Dugongo d’aprile.

Mistero, scoperta, cambiamento, trasformazione sono le parole-chiave più ricorrenti. Parole che trovano forse la loro sintesi più evocativa in quella che non ho esitato a presentare come una delle mie storie preferite, e che un’alunna ha definito più nascosta delle altre: Nessun altro paese. È incredibile – osservo a mia volta – quanto la storia somigli a un pensiero che una bambina ha espresso soltanto pochi giorni fa, quando per descrivere l’insolita emozione di serenità e chiarezza che le aveva dato una discussione in classe ha raccontato di aver trovato nella sua casa immaginaria una stanza in cui non era mai stata, ma che si trovava proprio al centro, equidistante da tutte le altre. Qui è un incidente domestico a propiziare la scoperta di una stanza fantastica, interna alla casa ma dalle sembianze di un antico giardino, che diventa per tutti i membri della famiglia un rifugio speciale. Giustamente un alunno parla della scoperta di un luogo interiore. Quando sai dov’è, è come se fosse dietro la porta; ma quando non lo sai, è come se non ci fosse, trovo scritto sul nostro diario.

Più volte affrontiamo racconti ellittici, lacunosi, lasciati in sospeso o privi di informazioni che ci aiuterebbero a ricostruire i fatti narrati. All’inizio qualche alunno sospetta che le Piccole storie di periferia altro non siano che una raccolta di estratti, come i brevi stralci di romanzi contenuti nell’antologia di letture. Ma un piacere vertiginoso, di settimana in settimana, si fa strada col pensiero che una storia può essere condensata in un dialogo tra parole e immagini carico di ambiguità, invece che raccontata per filo e per segno. E anche l’idea di una raccolta di storie autonome non tarda a essere messa alla prova, perché i numerosi riferimenti tra una storia e l’altra lasciano emergere in questa opera quanto mai eterogenea il profilo di un microcosmo fitto di corrispondenze. Di lettura in lettura è sempre più netta la sensazione di avere a che fare con un libro che emana il fascino alieno di un oggetto non meglio identificato, specialmente nel contesto scolastico: un libro libro di quelli che si incontrano di rado e paiono nascondersi, secondo la bella riflessione di un alunno che ho provato a riassumere in un post:

Oggi a scuola un bambino ha fatto un’osservazione sui cosiddetti libri “veri”, o “libri libri”… Dall’urgenza con cui si è messo a parlare, alzandosi anche in piedi e cercando le parole giuste per farsi comprendere da tutti, ho intuito subito che si trattava di un pensiero molto sentito, che forse trovava modo di esprimersi per la prima volta. Ha parlato di libri che “non si leggono solo perché ci hanno fatto il film”, o perché vanno di moda, o cose del genere. Libri che a scuola non si vedono così spesso, e che in generale non è facile trovare nemmeno nelle librerie e nelle biblioteche (a questo punto una compagna ha confermato che giusto ieri le ci sono volute due ore per scegliere un libro da prendere in prestito). Libri che si nascondono bene, non sono molto appariscenti, anzi hanno quasi sempre copertine “un po’ noiose”, però sono diversi da tutti gli altri, e ciascuno è unico, un “libro libro” che fa storia a sé. Mi è parsa una riflessione perfetta, e non soltanto per quanto riguarda i libri per bambini.

In questo territorio di scambi e metamorfosi non mancano avventure e viaggi ricchi di colpi di scena, che sollecitano anche riflessioni di tipo narratologico. La storia del nonno è talmente coinvolgente, nota un’alunna, che a un certo punto ci si dimentica che il nonno la sta raccontando, mentre della penultima storia, La nostra spedizione, viene apprezzata soprattutto l’ironia del finale, che riprende un’affermazione iniziale capovolgendola di senso. Un bambino prova a sua volta a ribaltare l’oscura storia da cui è tratta l’immagine in copertina, Veglia, immaginando che il cane sopravviva alla morte dell’uomo, mentre la storia conclusiva, La notte del salvataggio delle tartarughe, ispira ad alcuni alunni un’interessante concatenazione di ipotesi su ciò che dev’essere successo prima dei fatti narrati: forse i protagonisti hanno scoperto che il loro carico era composto da tartarughe solo durante il viaggio; forse è proprio questa scoperta, assieme al pensiero che le tartarughe sono in pericolo, a convincerli a proseguire la fuga; forse volevano rubare qualcos’altro, ma l’errore ha fatto sì che il loro furto diventasse una missione di salvataggio (!). Solo una storia risulta troppo difficile da comprendere (La macchina dell’amnesia), ma ci offre comunque lo spunto per raccontare i nostri sogni, in modo simile a come la discussione per altre due storie (La festa senza nome e Fare il tuo cucciolo) è condotta su brevi turni di parola a carattere personale, rispettivamente dedicati agli oggetti più cari (da lasciare in dono alla renna di cui parla il racconto) e agli animali domestici.

Ho lasciato volutamente alla fine il secondo racconto del volume, Eric, storia di un minuscolo studente straniero, dal corpo sottile e dalla testa a tre punte, che per un breve periodo di tempo vive nella dispensa della famiglia che lo ospita, e anche il racconto che tutti noi gli abbiamo istintivamente accostato, Omini stilizzati, riconoscendo tanti piccoli Eric negli sterpi vaganti ai margini delle strade, residui di una natura che nel grigio paesaggio urbano interroga la nostra responsabilità ecologica. È come se prendessero le nostre domande e ce le rigirassero, scrive un alunno isolando la frase che racchiude il senso del racconto, e allora il pensiero corre proprio all’ospite misterioso che con l’intelligenza della sua curiosità e la grazia della sua figura, di domanda in domanda, è diventato per noi qualcosa di simile all’incrocio fra uno spirito guida, un amico immaginario e una mascotte. Eric interessato alle piccole cose che scopriva per terra, coi suoi quesiti che lasciano interdetti nella loro semplicità, ma a cui nessuno sa rispondere; Eric impegnato a studiare con muta intensità sopra le pagine di un libro molto più grande di lui, o affaccendato attorno a un francobollo su cui ritrova la forma di un fiore; Eric imperscrutabile in quelle che la famiglia considera differenze culturali, e infine protagonista di un memorabile addio, nella meraviglia di un dono che è un miracolo di gratitudine e gratuità. Un piccolo alieno in visita al nostro pianeta – come qualcuno ha ipotizzato –, nel quale credo che i miei alunni abbiano visto qualcosa di simile a ciò che ogni giorno noi adulti possiamo scorgere in ciascun bambino.

Molti altri momenti emozionanti travalicano i quindici minuti di lettura e discussione. Un libro “nascosto” che entra in classe, nei casi più fortunati, può diventare infatti oggetto di attenzioni e curiosità inesauribili. È bellissimo, durante la suddivisione dei disegni per la copertina del diario, percepire quanto gli alunni si siano affezionati alle loro storie predilette, seguendo i propri gusti soggettivi. Anche il modo in cui ciascuno si rapporta al libro è estremamente personale. Nell’intervallo un bambino sta sbirciando i risguardi del libro, costellati di figurine tra le quali si diverte a scovare alcuni dei personaggi già incontrati. Non sa che si tratta degli schizzi da cui Shaun Tan cominciò a elaborare le proprie storie, ma questa poetica della moltitudine e della piccolezza si è già fatta strada nei suoi disegni, come nei disegni di molti compagni.

Verso la fine dell’anno, diverse composizioni ispirate alle storie sono collezioni di figure e ricordi che mi stupiscono per la cura dei particolari, e mi fanno ripensare al dono di Eric. Eric che un alunno immagina tornato a Micromondo, dove tutte le case hanno la forma del suo corpo, in un audace ribaltamento di prospettiva sull’azzurro del nostro pianeta. Eric che in questi disegni è onnipresente, perfino in versione faraonica, specie col suo incantevole volo a bordo di una foglia (un’immagine che anch’io avrei scelto per i biglietti di auguri da distribuire l’ultimo giorno di scuola). Ma l’esposizione che abbiamo allestito in corridoio spicca anche per la varietà degli stili e dei soggetti. In alcuni casi è evidente il tentativo di richiamarsi a figure come il bufalo d’acqua o il dugongo per esprimere emozioni difficili da comunicare fuor di metafora. Al centro del disegno che mi colpisce più di tutti, nell’erba alta che unisce e separa due case trincerate dietro fitte recinzioni, mi sembra di intravedere un’ombra familiare.

Poche settimane più tardi, un alunno sceglie la lettura delle Piccole storie di periferia come il ricordo più bello di quest’anno scolastico. Nel suo disegno, oltre alle figurine che presentano vari personaggi dei racconti in cornici simmetriche, affini allo stile di Peter Sís nella Conferenza degli uccelli (il libro che abbiamo letto nel primo quadrimestre), la nostra aula è vista dall’alto, e attorno a noi si apre uno spazio azzurro molto più vasto dei confini che conosciamo. Tales from Outer Suburbia, il titolo originale del libro, evoca la profondità di una periferia estrema, intesa al contempo come luogo fisico e stato mentale, in analogia con lo spazio profondo dell’universo (outer space). Un vuoto che esercita una potente attrazione per il pensiero e la fantasia, e un luogo dell’immaginario che in pochi mesi è diventato per noi un riferimento speciale, direi quasi l’archetipo di un nuovo modo di rapportarsi alla letteratura. Credo che ogni volta che tornerò a sfogliare questo libro, o il nostro diario, sarà di nuovo con me l’entusiasmo di un bambino poco propenso alla scrittura, rianimatosi per una felice intuizione durante un’attività poetica nei giardini più antichi della città, all’ombra del grande platano secolare: Voglio scrivere una piccola storia di periferia! Un impulso che ho l’impressione di conoscere, simile al piacere che ho provato nel trasformare in racconto un’esperienza scolastica indimenticabile.