[di Beatrice Arena*]
Sfoglio Che cos’è un bambino di Beatrice Alemagna, lo faccio sgranchire dopo qualche tempo di riposo: occhieggiava dal vetro della libreria. Guardandolo e leggendolo oggi penso: come parlare ai bambini?
Quotidianamente, insegnando, so che entro in una sfera comunicativa particolare. Imparare a farmi capire dai miei alunni di scuola primaria è stato, in questi anni, come una sfida continua ad apprendere una lingua straniera difficile. Credo comunque di essere solo all’inizio di questo viaggio. Noto, per esempio, che i bambini sotto gli otto anni sono spesso bizzarri agli occhi di noi adulti e vivono nelle loro bellissime originalità ancora non uniformate da tante aspettative sociali.
Ridono per le stesse cose tra di loro e noi adulti, tantissime volte, non capiamo proprio niente né del loro umorismo né del loro modo di vedere le cose. Dobbiamo imparare tanto di loro per raggiungerli. Sono le ore accumulate nel tentativo di spiegare le mille cose della Storia, della matematica, della geografia, della vita che ci avvicinano alla loro sensibilità e al codice segreto della loro rete comunitaria. Difficile è, prima di tutto, calibrare costantemente confidenza e distacco, cercando di apprendere quella distanza necessaria, quell’autorevolezza che serve a noi adulti per intraprendere un ruolo educativo efficace nei loro confronti.
La stessa distanza che ci permette di guardare bene un quadro percependolo nella sua interezza, senza disperdere lo sguardo in particolari. Quella distanza che anche Beatrice Alemagna ci chiede di prendere tra l’albo illustrato e noi. Sono i “faccioni” stessi, quelle grandissime illustrazioni di visi di bambini, che ci chiedono di distanziare immediatamente il foglio di venti o trenta centimetri per farsi guardare per bene. Facce grandi come a suggerire che anche se sono persone piccole (come scrive l’autrice) sono in realtà grandi, grandissime, dense, densissime.
La mia copia di Che cos’è un bambino è vecchia di alcune avventure che l’hanno sciupata in un angolo. Inizialmente è stata letta da me, poi è finita per un periodo in un asilo nido e successivamente nella biblioteca di una scuola materna. A volte torna a casa per farsi leggere da amici bambini e da amici adulti e a volte torna a scuola, per richiamare l’attenzione dei miei alunni o dei fratelli dei miei alunni che a ricreazione, nei giorni di pioggia, ci vengono a trovare dalle altre classi. Qualche volte anche lui, in quanto libro esausto, si riposa in camera, in libreria. Tutte le volte che lo apro, e anche oggi, penso a tutti i bambini che si sono divertiti davanti a quelle figure e penso a quelle volte che ho sentito risate argentine innescate da quei fulminei sprazzi di essenza bambina riportati dalla scrittrice nei caratteri in stampato minuscolo.
Penso, guardando la galleria di questi ritratti di bambini, che anche io per orientarmi nel mondo di facce tra i banchi, con il tempo ho redatto come una serie di “quadri” in cui ogni bambino è cristallizzato in un’immagine di se stesso della quale io enfatizzo particolari emozioni o racconti di vita. Perché faccio questo?
Come maestra spesso vengo sovrastata dal rumore e da una sovrabbondanza di richieste e informazioni che arrivano da più fronti e contemporaneamente. Per lavorare bene con i bambini e non perdere mai di vista il filo rosso che mi dice “cerca di comunicare bene con loro” talvolta mi devo fermare. Come in un respiro, per riprendere fiato da preconcetti alimentati dallo stress e dalle volte in cui la pazienza è messa a dura prova, devo guardare e riguardare ogni singolo alunno da fuori, come in una vetrina. Il mio sguardo, allora, guadagna limpidezza e scorgo sagome e figurette originali che spiccano, in tutta la loro stranezza, in tutta la loro attitudine a sopravvivere in mezzo a un mondo fatto per gli adulti e in cui loro sono costantemente stranieri con piccoli dizionari in mano.
Come costruisco queste istantanee di loro? A volte basta un loro particolare commento a una lettura, un loro racconto spontaneo. Mi bastano le loro reazioni inaspettate alle azioni degli altri. Sono preziosissime, poi, le loro arrabbiature improvvise e dirompenti, così vivide. Li vorrei fermare nella loro bellezza quando la loro personalità è visibile e non omologata ai gusti della massa, quando ancora dialogano con i bisogni primari del genere umano e ce li ricordano con la logica schiacciante di tutte le loro domande continue e necessarie.
Proprio come i ritratti dei bambini nel libro di Beatrice Alemagna sono evidentemente usciti dalla bidimedimensionalità del foglio per passeggiare nel mondo e innescare tutte le reazioni di cui fanno parte anche queste mie parole scritte, anche i miei ritratti di bambini tante volte si portano dietro scie luminose, che non sono altro che storie. È bello sperare che questi racconti possano creare altri spunti per altre storie, in una catena di coloriti rimandi.
La storia de L’uomo d’oro, per esempio, è nata dal racconto di alcuni particolari di un sogno fatto da un mio alunno. Ve la voglio raccontare.
Marco voleva diventare l’uomo d’oro. Aveva trovato in bagno la pasta metalizzata che aveva usato Alba per truccarsi. Aveva deciso di ricoprirsene completamente.
Aveva iniziato dai lobi delle orecchie che erano diventati piccole mele croccanti e sode, come quelle del giardino dell’Eden. Poi si era guardato allo specchio e aveva pensato che quei lobi luccicanti ora sembravano davvero d’oro massiccio e gli davano un’aria elegante.
Pensò alle facce dipinte sui sarcofagi egizi. Gli vennero in mente le pietre preziose, le striature, gli occhi truccati di nero e i simboli di animali, di sciacalli. Era diventato serio.
Guardando la pasta densa e scura, pensò a quegli unguenti che le donne spalmavano sul tutto il corpo del faraone prima di metterlo nel sarcofago.
Statuetta di Amun, ca. 945–712 a.c. Egitto. MET, NY.
Al museo egizio aveva visto delle interessanti boccette di terracotta per unguenti. Erano antiche e misteriose. Annusò la pasta, ma non era aromatica come immaginava fossero gli unguenti. Aveva un odore chimico di pennarello indelebile e di colla vinilica insieme, ma era lieve, bisognava annusarla a lungo per riempirsene le narici.
Avrebbe continuato con le guance. Ora era vagamente lucido, più seriamente “metallico”, proprio come l’uomo di latta, quello che Dorothy incontra mentre si incammina sul sentiero di mattoni gialli.
Con il dito si era disegnato una lacrima sulla guancia ancora un po’ scoperta e il suo sorriso si era allungato in un ghigno largo. Aveva fatto una risata. Ora era un Pierrot triste e allegro, si batteva le mani sul petto e pensava al suono di qualcuno che bussa a una porta. Pensava alla stanza vuota al di là di quella porta, alla cassa toracica buia e sgombra che l’uomo di latta aveva mostrato, aprendo uno sportellino cigolante, mentre in quel film piangeva e diceva che voleva un cuore, perché lui un cuore non ce l’aveva.
Buddha Shakyamuni o Akshobhya, XI-XII sec., Tibet, MET NY.
Sicuramente la latta è fredda e non ha bisogno di un cuore e di sangue caldo per tenersi insieme. Una volta a Natale aveva spruzzato con una bomboletta alcune ghiande che erano diventate tutte dorate, ma non erano diventate fredde o di metallo. Con un sasso le aveva rotte e dentro erano ancora marroni. Pensò: «Cosa succederà quando avrò dipinto completamente me stesso d’oro? Forse la pasta si seccherà e io rimarrò come dentro a un involucro da sgusciare…»
La nonna aveva regalato a Marco un ciondolo per il suo compleanno. Gli aveva spiegato che non era d’oro, ma placcato oro, cioè intinto nell’oro.
Donna seduta, Colombia, IV-VII sec. a. c., British Museum, Londra.
A Marco sarebbe piaciuto cadere in una vasca di oro fuso lucido come uno specchio. Non gli sarebbe bastato ricoprirsi di una patina dorata, come quella carta metallica che Alba metteva intorno ai loro panini.
Le mani. Già si erano un po’ impiastricciate. Ora poteva ricoprirle completamente. Quando aveva usato il pennarello argentato per colorare alcune stelle di cartoncino si era sporcato tutte le dita. Alba si era arrabbiata e l’aveva pulito con il solvente per unghie. Ora le pieghe delle nocche e delle falangi si erano evidenziate bene, il colore era entrato a far parte della pelle. Marco si fregava le mani energicamente, voleva che la pelle assorbisse bene la vernice.
Statuetta di dio ittita, Louvre, Parigi.
Sopra le palpebre.. non doveva dimenticarsi delle palpebre! Un rumore improvviso. Metallico. Pensava di aver perso la moneta che teneva in tasca dal giorno prima. Invece era il coperchio del trucco dorato caduto e perso chissà dove, sotto al mobiletto del bagno. Marco si era chinato per cercarlo. Con la guancia aveva toccato il pavimento freddo.
«Sei pronto Marco per andare? Ti ricordi … oggi andiamo a trovare la zia.»
Non si era ricordato. Ora era sdraiato sul pavimento, mezzo dorato e mezzo no. Doveva rialzarsi. Era fresco e piacevole il pavimento. Che bello adagiarsi così. Un piccolo torpore, uno sbadiglio. Poi, dalla cucina, il profumo del pane tostato e del caffellatte. I sensi che si risvegliano all’improvviso. Bisogna prepararsi per andare dalla zia! Bisogna fare colazione! È ora di lavare via la vernice d’oro del sogno e uscire a rinfrescare le guance all’aria fresca del mattino.
Statuetta d'oro, Inca (a.c. 1400-1532), Cuzco, Peru.
* Diplomata al liceo socio psico pedagogico, Beatrice Arena è operatrice culturale, esperta in scienze della formazione. Si è laureata con lode presso Alma Mater Studiorum di Bologna con la tesi in letteratura per l’infanzia dal titolo “A lezione di abisso, l’attrazione verso il mondo di sotto” sul topos letterario della discesa nel sottosuolo. Ha scritto percorsi di lettura per la rivista “Hamelin, note sull’immaginario collettivo” e frequentato il Corso di Alta formazione continua e permanente in “Esperto in editoria multimediale per l’infanzia e l’adolescenza” promosso e presieduto da Emy Beseghi e Giorgia Grilli presso l’Alma Mater Studiorum, e i tre corsi tenuti da Antonio Faeti e promossi dalla Fondazione Cassa di risparmio di Bologna intitolati “Itinerari del fiabesco: venticinque lezioni sul fantastico, sull’immaginario e sulle nostre radici”; “ Gli eterni del sogno: venticinque lezioni sulle icone, i personaggi, i temi ricorrenti dell’immaginario collettivo; “ Le doppie notti dei tigli: venticinque lezioni per far leggere gli adolescenti”. Ha insegnato presso nido e scuola materna, e dal 2008 insegna in una scuola primaria. Vive a Parma.
Human effigy figure, Chimu style, Perù, Walters Art Museum, Baltimora.